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I prodotti Pirelli per la montagna: dagli anni Trenta una scalata verso il successo

Una grande immagine pubblicitaria tappezza tutta Milano: un uomo, ripreso dal basso, cammina su una lastra di vetro. Suole e tacchi delle sue scarpe in primo piano: sono prodotti Pirelli. L’immagine porta la firma di Ermanno Scopinich, una campagna pubblicitaria che ha fatto la storia della comunicazione visiva. Una storia di ricerca e avanguardia che inizia già negli anni Trenta quando Pirelli cerca l’innovazione anche nel mondo delle calzature, dedicandosi all’elaborazione di una nuova tecnologia pensata per l’outdoor: la “suola alpina”, che sostituirà successivamente quella chiodata. La sua ideazione parte da una scalata verso la vetta, quella di Punta Rasica in Val Bregaglia del 1935. Diciannove alpinisti tentano la salita. Tra di loro, anche Vitale Bramani, all’epoca accademico del CAI, medaglia d’oro al valore per il contributo nell’apertura di varchi attraverso le Alpi e guida personale di re Alberto I di Belgio nelle sue scalate alle Dolomiti. Colto da un’improvvisa burrasca di neve durante l’arrampicata, il gruppo si trova sprovvisto di protezioni adeguate a sostenere il freddo: coperti dalle sole pedule in corda di canapa ai piedi, l’assideramento ha la meglio su sei di loro. In una prima fase dell’alpinismo, infatti, era necessario utilizzare due tipologie di scarpe. Una che garantisse la sicurezza sul percorso fino alla parete rocciosa (gli scarponi chiodati) e una più leggera per l’arrampicata stessa (le pedule), che però dimostra tutta la sua inadeguatezza in più occasioni critiche o estreme mettendo a rischio gli esploratori. Bramani si rende subito conto dell’inefficacia di un simile equipaggiamento e, deciso a evitare altre simili tragedie, si pone un obiettivo: trovare un modo per migliorare la sicurezza degli alpinisti creando un unico scarpone adatto a entrambe le situazioni e, soprattutto, che non scivoli. Mai. In vetta all’Everest come nel fango o sul ghiaccio bagnato.

La svolta imprenditoriale avviene grazie a un fortunato incontro: Bramani entra in contatto con Franco Brambilla, futuro amministratore delegato di Pirelli e cognato di Leopoldo Pirelli. Da lì un’intuizione: perché non conferire alle suole “il grip” tipico dei pneumatici? Insieme studiano una nuova mescola di gomma vulcanizzata e un disegno tecnico su modello dei battistrada Pirelli. A tasselli simmetrici, a forma di croce e ben marcati, i prototipi drenano perfettamente all’esterno neve e detriti garantendo maggiore aderenza e compattezza in ogni fase dell’escursione, dall’avvicinamento alla parete fino alla scalata.

È il 1937 e nei laboratori di Pirelli prende così forma un nuovo tipo di suola tecnica brevettata Vibram, “il carrarmato”. Sebbene il successo sia immediato, la consacrazione vera e propria arriva solo nel 1954 con la famosa spedizione sul K2 di Achille Compagnoni, Lino Lacedelli, Walter Bonatti e Amir Mahdi. Il team, equipaggiato con scarponi Dolomite suolati Vibram, conquista la cima. È un successo a tutto tondo: un traguardo agonistico, un debutto per la suola alpina ma anche l’inizio di una nuova fase – più innovativa e sicura – nella storia dell’alpinismo. Resistenti all’abrasione, alla trazione, all’aderenza si rivelano immediatamente perfette per usi militari: «A quei tempi, mi ricordo, ho fatto una fornitura al battaglione Aosta. Ora tutti gli appartenenti alla NATO hanno le mie suole», racconta il fondatore di Vibram, che le fornisce in dotazione anche al Regio Esercito durante la Seconda Guerra Mondiale, agli Alpini Sciatori Monte Cervino e, ancora oggi, ai Marines statunitensi. Da allora, passo dopo passo, la versatilità delle suole Vibram, ispirate alle innovazioni dei prodotti Pirelli, conquistano i mercati di tutto il mondo, e non solo per uso sportivo: dalla personalizzazione per specifiche attività di outdoor al motociclismo, dalla vita cittadina all’alta moda l’ottagono giallo-oro veste anche marchi come Ferragamo, Pollini, The Northface e molti altri. Esattamente come i pneumatici Pirelli lasciano il proprio caratteristico segno a seconda del modello, così a ogni suola è associato il proprio battistrada (Accademica, Alpina e Aprica, per la montagna; Belpasso, Viavai o Lungarno per il passeggio; Ripple per “un passo elastico”; Levanto per chi predilige l’estetica).

Una storia che continua. Un successo di innovazione e creatività sempre in movimento, come le aziende che l’hanno costruito.

Una grande immagine pubblicitaria tappezza tutta Milano: un uomo, ripreso dal basso, cammina su una lastra di vetro. Suole e tacchi delle sue scarpe in primo piano: sono prodotti Pirelli. L’immagine porta la firma di Ermanno Scopinich, una campagna pubblicitaria che ha fatto la storia della comunicazione visiva. Una storia di ricerca e avanguardia che inizia già negli anni Trenta quando Pirelli cerca l’innovazione anche nel mondo delle calzature, dedicandosi all’elaborazione di una nuova tecnologia pensata per l’outdoor: la “suola alpina”, che sostituirà successivamente quella chiodata. La sua ideazione parte da una scalata verso la vetta, quella di Punta Rasica in Val Bregaglia del 1935. Diciannove alpinisti tentano la salita. Tra di loro, anche Vitale Bramani, all’epoca accademico del CAI, medaglia d’oro al valore per il contributo nell’apertura di varchi attraverso le Alpi e guida personale di re Alberto I di Belgio nelle sue scalate alle Dolomiti. Colto da un’improvvisa burrasca di neve durante l’arrampicata, il gruppo si trova sprovvisto di protezioni adeguate a sostenere il freddo: coperti dalle sole pedule in corda di canapa ai piedi, l’assideramento ha la meglio su sei di loro. In una prima fase dell’alpinismo, infatti, era necessario utilizzare due tipologie di scarpe. Una che garantisse la sicurezza sul percorso fino alla parete rocciosa (gli scarponi chiodati) e una più leggera per l’arrampicata stessa (le pedule), che però dimostra tutta la sua inadeguatezza in più occasioni critiche o estreme mettendo a rischio gli esploratori. Bramani si rende subito conto dell’inefficacia di un simile equipaggiamento e, deciso a evitare altre simili tragedie, si pone un obiettivo: trovare un modo per migliorare la sicurezza degli alpinisti creando un unico scarpone adatto a entrambe le situazioni e, soprattutto, che non scivoli. Mai. In vetta all’Everest come nel fango o sul ghiaccio bagnato.

La svolta imprenditoriale avviene grazie a un fortunato incontro: Bramani entra in contatto con Franco Brambilla, futuro amministratore delegato di Pirelli e cognato di Leopoldo Pirelli. Da lì un’intuizione: perché non conferire alle suole “il grip” tipico dei pneumatici? Insieme studiano una nuova mescola di gomma vulcanizzata e un disegno tecnico su modello dei battistrada Pirelli. A tasselli simmetrici, a forma di croce e ben marcati, i prototipi drenano perfettamente all’esterno neve e detriti garantendo maggiore aderenza e compattezza in ogni fase dell’escursione, dall’avvicinamento alla parete fino alla scalata.

È il 1937 e nei laboratori di Pirelli prende così forma un nuovo tipo di suola tecnica brevettata Vibram, “il carrarmato”. Sebbene il successo sia immediato, la consacrazione vera e propria arriva solo nel 1954 con la famosa spedizione sul K2 di Achille Compagnoni, Lino Lacedelli, Walter Bonatti e Amir Mahdi. Il team, equipaggiato con scarponi Dolomite suolati Vibram, conquista la cima. È un successo a tutto tondo: un traguardo agonistico, un debutto per la suola alpina ma anche l’inizio di una nuova fase – più innovativa e sicura – nella storia dell’alpinismo. Resistenti all’abrasione, alla trazione, all’aderenza si rivelano immediatamente perfette per usi militari: «A quei tempi, mi ricordo, ho fatto una fornitura al battaglione Aosta. Ora tutti gli appartenenti alla NATO hanno le mie suole», racconta il fondatore di Vibram, che le fornisce in dotazione anche al Regio Esercito durante la Seconda Guerra Mondiale, agli Alpini Sciatori Monte Cervino e, ancora oggi, ai Marines statunitensi. Da allora, passo dopo passo, la versatilità delle suole Vibram, ispirate alle innovazioni dei prodotti Pirelli, conquistano i mercati di tutto il mondo, e non solo per uso sportivo: dalla personalizzazione per specifiche attività di outdoor al motociclismo, dalla vita cittadina all’alta moda l’ottagono giallo-oro veste anche marchi come Ferragamo, Pollini, The Northface e molti altri. Esattamente come i pneumatici Pirelli lasciano il proprio caratteristico segno a seconda del modello, così a ogni suola è associato il proprio battistrada (Accademica, Alpina e Aprica, per la montagna; Belpasso, Viavai o Lungarno per il passeggio; Ripple per “un passo elastico”; Levanto per chi predilige l’estetica).

Una storia che continua. Un successo di innovazione e creatività sempre in movimento, come le aziende che l’hanno costruito.

Curarsi delle risorse più importanti

Appena pubblicato in nuovo “manuale” di gestione del personale

 

Una teoria che nasce dalla realtà. E che non è una teoria monolitica ma, come la realtà, fatta da tanti aspetti che si integrano a vicenda. Teoria complessa per una realtà complessa. Può essere solo così, quando si parla di risorse umane nelle imprese e dell’approccio migliore a questo tema. E’ questa l’idea di fondo che sostiene il libro curato da Ernesto D’Amato (manager con una lunga esperienza aziendale) composto da una serie di interventi scritti a più mani che hanno tutti una caratteristica ben precisa: si tratta sempre di mani di altri manager. Pratica quotidiana d’azienda, quindi, e non teoria d’accademia.

Da qui il senso del titolo e del sottotitolo del volume: “Il manuale delle risorse umane. Scritto da manager per futuri manager”. E in effetti il libro si presenta davvero come un “manuale” e cioè uno strumento di lavoro non astratto ma composto per offrire a chi legge un ricco ventaglio di casi aziendali e buona pratiche di HR con l’obiettivo di incoraggiare un proficuo processo di apprendimento, nel quale siano – come si diceva all’inizio -, le teorie a nascere da casi ed esempi concreti e non l’inverso.

Il libro è articolato in quattro sezioni, corrispondenti ad altrettanti temi importanti: l’organizzazione aziendale in termini generali, le pratiche di gestione delle risorse umane, il welfare, la disciplina del lavoro e le relazioni sindacali. Sono messe in fila  le testimonianze di una trentina di manager delle più importanti aziende, da Sanofi a Trenord, da Generali a Ikea, da Bosch a Manpower e molte altre realtà. Le poco più di 300 pagine del libro, sono quindi una raccolta di esperienze sul campo raccontate e ripercorse da chi gestisce davvero la funzione risorse umane, ma anche soluzioni nuove e strategie poste in essere da coloro che quotidianamente sono chiamati ad affrontare problemi organizzativi reali. Chi legge, poi, non trova solo le indicazioni più tradizionali sulla materia, ma anche approfondimenti su temi ormai essenziali per ogni impresa come la ricerca e la valorizzazione dei talenti, lo smart working, la sicurezza del lavoro, la Gender Equality, l’etica della persone e dell’azienda.

Il libro curato da D’Amato è una buona raccolta di linee guida che potranno servire da bussola e da stimolo per i manager di oggi e di domani. Da leggere e rileggere.

Il manuale delle risorse umane. Scritto da manager per futuri manager

Ernesto D’Amato (a cura di)

Guerini NEXT, 2021

Appena pubblicato in nuovo “manuale” di gestione del personale

 

Una teoria che nasce dalla realtà. E che non è una teoria monolitica ma, come la realtà, fatta da tanti aspetti che si integrano a vicenda. Teoria complessa per una realtà complessa. Può essere solo così, quando si parla di risorse umane nelle imprese e dell’approccio migliore a questo tema. E’ questa l’idea di fondo che sostiene il libro curato da Ernesto D’Amato (manager con una lunga esperienza aziendale) composto da una serie di interventi scritti a più mani che hanno tutti una caratteristica ben precisa: si tratta sempre di mani di altri manager. Pratica quotidiana d’azienda, quindi, e non teoria d’accademia.

Da qui il senso del titolo e del sottotitolo del volume: “Il manuale delle risorse umane. Scritto da manager per futuri manager”. E in effetti il libro si presenta davvero come un “manuale” e cioè uno strumento di lavoro non astratto ma composto per offrire a chi legge un ricco ventaglio di casi aziendali e buona pratiche di HR con l’obiettivo di incoraggiare un proficuo processo di apprendimento, nel quale siano – come si diceva all’inizio -, le teorie a nascere da casi ed esempi concreti e non l’inverso.

Il libro è articolato in quattro sezioni, corrispondenti ad altrettanti temi importanti: l’organizzazione aziendale in termini generali, le pratiche di gestione delle risorse umane, il welfare, la disciplina del lavoro e le relazioni sindacali. Sono messe in fila  le testimonianze di una trentina di manager delle più importanti aziende, da Sanofi a Trenord, da Generali a Ikea, da Bosch a Manpower e molte altre realtà. Le poco più di 300 pagine del libro, sono quindi una raccolta di esperienze sul campo raccontate e ripercorse da chi gestisce davvero la funzione risorse umane, ma anche soluzioni nuove e strategie poste in essere da coloro che quotidianamente sono chiamati ad affrontare problemi organizzativi reali. Chi legge, poi, non trova solo le indicazioni più tradizionali sulla materia, ma anche approfondimenti su temi ormai essenziali per ogni impresa come la ricerca e la valorizzazione dei talenti, lo smart working, la sicurezza del lavoro, la Gender Equality, l’etica della persone e dell’azienda.

Il libro curato da D’Amato è una buona raccolta di linee guida che potranno servire da bussola e da stimolo per i manager di oggi e di domani. Da leggere e rileggere.

Il manuale delle risorse umane. Scritto da manager per futuri manager

Ernesto D’Amato (a cura di)

Guerini NEXT, 2021

Gusto produttivo

Una ricerca condotta sui legami tra design  e industria italiana, approfondisce i complessi collegamenti che danno forma e sostanza alla buona cultura d’impresa nazionale

Buona cultura del produrre. Sintesi di un tutto fatto di capacità tecnica, gusto, valori umani. Luogo d’eccellenza per tutto questo: l’Italia. E’ attorno a questi temi che ragionano Maria Antonietta Sbordone (dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale), e Davide Turrini (dell’Università degli Studi di Ferrara, Dipartimento di Architettura) con un loro contributo apparso recentemente su MD Journal.

“Designed & Made in Italy. Invarianti, transizioni, nuove mappe valoriali” è il tentativo di sintesi di una serie dei collegamenti tra il design e il made in Italy che cerca di fissare i punti “costanti” rispetto a quelli  variabili che mutano con il tempo e con l’evoluzione del contesto economico e sociale.

Scrivono Sbordone e Turrini nella loro introduzione: “In Italia, dove sono perlopiù mancati investimenti ingenti e continuativi di grandi imprese industriali, nonché committenze unitarie, vaste e strutturate, l’osservazione del nesso tra design e manifattura ha dovuto includere storicamente il fattore «gusto», inteso come fenomeno culturale complesso e ricco di sfumature che ha incorporato valenze semantiche, formali, di qualità esecutiva e commerciali del tutto peculiari e riconoscibili. Oggi questo fenomeno è connotato da ulteriori gradi di complessità e di varianza: in scenari nazionali e globali sempre più fluidi i processi di delocalizzazione dilagano; il tessuto sociale del ceto medio, storico protagonista nella sfera produttiva e gestionale della trasformazione del consumo in immaginario, si sgretola; le consapevolezze degli acquirenti nei confronti dei reali contenuti valoriali dei beni si indeboliscono e la percezione della qualità è soggetta a variabili viepiù aleatori”.

E’ da questa serie di constatazioni che la ricerca prende le mosse per compiere un cammino in poche mosse: prima vengono approfonditi i diversi collegamenti all’interno di ciò che per comodità viene indicato come made in Italy, poi si passa ad approfondire le “Convergenze tra creatività e manifattura” per arrivare quindi a valutare gli effetti del cambiamento con una analisi delle “declinazioni del design nella nuova catena valoriale”.

Il saggio di Maria Antonietta Sbordone e Davide Turrini non è sempre di facilissima lettura, ma contribuisce ad approfondire la conoscenza di un sistema davvero complesso di relazioni che, tuttavia, è alla base di buona parte dell’eccellenza industriale e produttiva italiana.

Designed & Made in Italy. Invarianti, transizioni, nuove mappe valoriali

Maria Antonietta Sbordone, Davide Turrini

MD Journal, 9, 2020

Una ricerca condotta sui legami tra design  e industria italiana, approfondisce i complessi collegamenti che danno forma e sostanza alla buona cultura d’impresa nazionale

Buona cultura del produrre. Sintesi di un tutto fatto di capacità tecnica, gusto, valori umani. Luogo d’eccellenza per tutto questo: l’Italia. E’ attorno a questi temi che ragionano Maria Antonietta Sbordone (dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale), e Davide Turrini (dell’Università degli Studi di Ferrara, Dipartimento di Architettura) con un loro contributo apparso recentemente su MD Journal.

“Designed & Made in Italy. Invarianti, transizioni, nuove mappe valoriali” è il tentativo di sintesi di una serie dei collegamenti tra il design e il made in Italy che cerca di fissare i punti “costanti” rispetto a quelli  variabili che mutano con il tempo e con l’evoluzione del contesto economico e sociale.

Scrivono Sbordone e Turrini nella loro introduzione: “In Italia, dove sono perlopiù mancati investimenti ingenti e continuativi di grandi imprese industriali, nonché committenze unitarie, vaste e strutturate, l’osservazione del nesso tra design e manifattura ha dovuto includere storicamente il fattore «gusto», inteso come fenomeno culturale complesso e ricco di sfumature che ha incorporato valenze semantiche, formali, di qualità esecutiva e commerciali del tutto peculiari e riconoscibili. Oggi questo fenomeno è connotato da ulteriori gradi di complessità e di varianza: in scenari nazionali e globali sempre più fluidi i processi di delocalizzazione dilagano; il tessuto sociale del ceto medio, storico protagonista nella sfera produttiva e gestionale della trasformazione del consumo in immaginario, si sgretola; le consapevolezze degli acquirenti nei confronti dei reali contenuti valoriali dei beni si indeboliscono e la percezione della qualità è soggetta a variabili viepiù aleatori”.

E’ da questa serie di constatazioni che la ricerca prende le mosse per compiere un cammino in poche mosse: prima vengono approfonditi i diversi collegamenti all’interno di ciò che per comodità viene indicato come made in Italy, poi si passa ad approfondire le “Convergenze tra creatività e manifattura” per arrivare quindi a valutare gli effetti del cambiamento con una analisi delle “declinazioni del design nella nuova catena valoriale”.

Il saggio di Maria Antonietta Sbordone e Davide Turrini non è sempre di facilissima lettura, ma contribuisce ad approfondire la conoscenza di un sistema davvero complesso di relazioni che, tuttavia, è alla base di buona parte dell’eccellenza industriale e produttiva italiana.

Designed & Made in Italy. Invarianti, transizioni, nuove mappe valoriali

Maria Antonietta Sbordone, Davide Turrini

MD Journal, 9, 2020

Riscoprire valori e bellezza della scrittura nel tempo frettoloso di like e invettive

“Credo nel mistero delle parole e che le parole possano diventare vita, destino, così come diventano bellezza”. Leonardo Sciascia le sapeva usare bene, con misurata severità e robusta capacità espressiva. E ne ha lasciato tracce preziose, in romanzi e saggi che ancora oggi raccontano tensioni e dolori, caute speranze e ragionevoli progetti d’un futuro migliore.

Ecco una parola essenziale: futuro. “A futura memoria”, scriveva infatti, in una raccolta di articoli pubblicata da Bompiani nel 1989 e poi, da Adelphi, nel 2017. Naturalmente, “se la memoria ha un futuro”, aggiungeva, con l’ironica e malinconica consapevolezza dei limiti della condizione umana.

La bellezza evocativa delle parole, la potenza ben controllata della scrittura. E se forse non è del tutto esatto che “il mondo, alla fine, è fatto per finire in un bel libro”, come sosteneva Stéphane Mallarmé, è sicuro che la caratteristica fondamentale dell’animale-uomo è di saper affrontare la vita costruendo racconti, dando dunque spessore di storia, fascino di poesia, senso di prospettiva a esistenze che, altrimenti, si esaurirebbero nell’istante dell’esperienza, nel tempo corto di una vita. Ricordando la lezione di Yuval Noah Harari, storico israeliano, Gianrico Carofiglio, nelle pagine su “La nuova manomissione delle parole”, Feltrinelli, nota che “la rivoluzione cognitiva che ha permesso all’Homo sapiens di avere la meglio sulle altre specie animali è consistita proprio nella capacità di elaborare e raccontare storie, nell’attitudine a costruire metafore. E la storie, dalle leggende delle antiche religioni ai miti della società di massa, tengono insieme le grandi collettività umane e permettono imprese che sarebbero impossibili senza la capacità di raccontare il passato e di immaginare il futuro”.

Scrivendo e raccontando, la persona umana sfida la morte e supera il tempo. Dunque, racconto e scrittura sono essenziali per dire e interpretare la realtà in movimento e lasciare tracce oltre il limite del sé. Torniamo alle parole care a Sciascia (e a ogni altro scrittore): memoria e futuro.

E’ dunque fonte di doloroso stupore sapere che su www.change.org  più di 30mila firme accompagnino una petizione di ragazzi delle scuole superiori che chiedono di abolire la prova scritta agli esami di maturità del 2022, limitandosi alle prove orali. La prova scritta, è vero, è più difficile. E nei confronti a voce con i professori, possono valere anche altre attitudini: la capacità di improvvisare, la disinvoltura nell’esposizione, l’abilità di surfare sull’onda dei concetti senza approfondire, la simpatia personale. Ma verba volant. Ed è invece la scrittura che testimonia la comprensione di un concetto, di un racconto, di una storia. La capacità di sintesi che ne deriva. La chiarezza di una descrizione esatta.

“Se la scrittura fa paura”, ha commentato Paolo Di Paolo su “la Repubblica” (8 novembre). Paura ai ragazzi prima degli esami. Ma anche paura agli adulti spaesati di fronte a un foglio bianco da riempire di pensieri e giudizi da rendere comprensibili o a un foglio scritto di cui non si è capaci di capire il senso. E la povertà di linguaggio è impoverimento umano. Causa di degrado personale. Ferita sociale. Spinta alla marginalità. I dati Invalsi resi noti nello scorso settembre sono preoccupanti, perché confermano l’ignoranza crescente dei nostri ragazzi: il 44% degli studenti delle superiori non raggiunge il livello minimo in Italiano, il 51% in Matematica. E i dati sono ancora più pesanti nel Mezzogiorno e nelle famiglie economicamente disagiate.

Il quadro dell’istruzione è in generale molto grave. L’Italia, infatti, è in coda all’Europa per numerato di laureati (appena il 19,6% nella fascia d’età tra i 25 e i 64 anni, rispetto a una media Ue del 33,2%) e ha una quota elevatissima di persone con un bassissimo livello scolastico: 13 milioni di persone con appena la licenza media inferiore. Un limite gravissimo, non solo per le prospettive di crescita economica, ma anche e soprattutto per una maggiore diffusione di uno sviluppo socialmente equilibrato.

Rendere gli esami più facili può migliorare la situazione? Naturalmente no.

Al di là delle profonde modifiche di cui ha bisogno tutto il nostro processo formativo e degli investimenti necessari (il Pnrr del governo Draghi e le misure annunciate dal ministro dell’Istruzione Bianchi vanno pur se parzialmente in questa direzione), c’è una grande battaglia sociale e culturale da sostenere nel Paese. A cominciare dall’impegno per dare valore a scrittura e lettura. E insegnare a raccontare meglio e più profondamente società, economia, lavoro, imprese, comunità.

Rem tene, verba sequentur, dicevano i latini. O anche Nomina sunt consequentia rerum. Il nesso tra cose e parole, fatti e nomi è imprescindibile. La scrittura ne consacra il senso.

Scrivere permette di mettere in ordine i pensieri, di esprimere con compiutezza emozioni e desideri, di motivare scelte. Di tradurre la complessità del reale in una forma ben articolata e controllata che altri può comprendere e condividere.

Viviamo, è vero, in una società segnata dalla prevalenza delle immagini e da un’idea del tempo istantaneo, dal “presentiamo”, dalle velleità del “tutto e subito” (“Instant economics – The real-time revolution”, ha titolato “The Economist” del 23 ottobre per un’inchiesta sulle frenesie finanziarie e il consumismo frettoloso). I social media, con la prevalenza del linguaggio dei like, hanno schiacciato i giudizi in sentimenti estremi di amore fanatico e odio. La scrittura s’è ridotta alla povertà dell’invettiva o dell’esagerata meraviglia. La potenza comunicativa s’è dilatata. Ma il  controllo latita. La manipolazione è devastante.

Anche per questo è necessario tornare al valore profondo delle parole, alla riscoperta del loro senso. Alla distanza che la buona scrittura impone per poter “dire” con chiarezza di sé, definire il mondo, raccontare esperienze e sensazioni. Superando la paura della scrittura. E ritrovando il gusto della chiarezza e, rileggendo Sciascia, della bellezza.

“Credo nel mistero delle parole e che le parole possano diventare vita, destino, così come diventano bellezza”. Leonardo Sciascia le sapeva usare bene, con misurata severità e robusta capacità espressiva. E ne ha lasciato tracce preziose, in romanzi e saggi che ancora oggi raccontano tensioni e dolori, caute speranze e ragionevoli progetti d’un futuro migliore.

Ecco una parola essenziale: futuro. “A futura memoria”, scriveva infatti, in una raccolta di articoli pubblicata da Bompiani nel 1989 e poi, da Adelphi, nel 2017. Naturalmente, “se la memoria ha un futuro”, aggiungeva, con l’ironica e malinconica consapevolezza dei limiti della condizione umana.

La bellezza evocativa delle parole, la potenza ben controllata della scrittura. E se forse non è del tutto esatto che “il mondo, alla fine, è fatto per finire in un bel libro”, come sosteneva Stéphane Mallarmé, è sicuro che la caratteristica fondamentale dell’animale-uomo è di saper affrontare la vita costruendo racconti, dando dunque spessore di storia, fascino di poesia, senso di prospettiva a esistenze che, altrimenti, si esaurirebbero nell’istante dell’esperienza, nel tempo corto di una vita. Ricordando la lezione di Yuval Noah Harari, storico israeliano, Gianrico Carofiglio, nelle pagine su “La nuova manomissione delle parole”, Feltrinelli, nota che “la rivoluzione cognitiva che ha permesso all’Homo sapiens di avere la meglio sulle altre specie animali è consistita proprio nella capacità di elaborare e raccontare storie, nell’attitudine a costruire metafore. E la storie, dalle leggende delle antiche religioni ai miti della società di massa, tengono insieme le grandi collettività umane e permettono imprese che sarebbero impossibili senza la capacità di raccontare il passato e di immaginare il futuro”.

Scrivendo e raccontando, la persona umana sfida la morte e supera il tempo. Dunque, racconto e scrittura sono essenziali per dire e interpretare la realtà in movimento e lasciare tracce oltre il limite del sé. Torniamo alle parole care a Sciascia (e a ogni altro scrittore): memoria e futuro.

E’ dunque fonte di doloroso stupore sapere che su www.change.org  più di 30mila firme accompagnino una petizione di ragazzi delle scuole superiori che chiedono di abolire la prova scritta agli esami di maturità del 2022, limitandosi alle prove orali. La prova scritta, è vero, è più difficile. E nei confronti a voce con i professori, possono valere anche altre attitudini: la capacità di improvvisare, la disinvoltura nell’esposizione, l’abilità di surfare sull’onda dei concetti senza approfondire, la simpatia personale. Ma verba volant. Ed è invece la scrittura che testimonia la comprensione di un concetto, di un racconto, di una storia. La capacità di sintesi che ne deriva. La chiarezza di una descrizione esatta.

“Se la scrittura fa paura”, ha commentato Paolo Di Paolo su “la Repubblica” (8 novembre). Paura ai ragazzi prima degli esami. Ma anche paura agli adulti spaesati di fronte a un foglio bianco da riempire di pensieri e giudizi da rendere comprensibili o a un foglio scritto di cui non si è capaci di capire il senso. E la povertà di linguaggio è impoverimento umano. Causa di degrado personale. Ferita sociale. Spinta alla marginalità. I dati Invalsi resi noti nello scorso settembre sono preoccupanti, perché confermano l’ignoranza crescente dei nostri ragazzi: il 44% degli studenti delle superiori non raggiunge il livello minimo in Italiano, il 51% in Matematica. E i dati sono ancora più pesanti nel Mezzogiorno e nelle famiglie economicamente disagiate.

Il quadro dell’istruzione è in generale molto grave. L’Italia, infatti, è in coda all’Europa per numerato di laureati (appena il 19,6% nella fascia d’età tra i 25 e i 64 anni, rispetto a una media Ue del 33,2%) e ha una quota elevatissima di persone con un bassissimo livello scolastico: 13 milioni di persone con appena la licenza media inferiore. Un limite gravissimo, non solo per le prospettive di crescita economica, ma anche e soprattutto per una maggiore diffusione di uno sviluppo socialmente equilibrato.

Rendere gli esami più facili può migliorare la situazione? Naturalmente no.

Al di là delle profonde modifiche di cui ha bisogno tutto il nostro processo formativo e degli investimenti necessari (il Pnrr del governo Draghi e le misure annunciate dal ministro dell’Istruzione Bianchi vanno pur se parzialmente in questa direzione), c’è una grande battaglia sociale e culturale da sostenere nel Paese. A cominciare dall’impegno per dare valore a scrittura e lettura. E insegnare a raccontare meglio e più profondamente società, economia, lavoro, imprese, comunità.

Rem tene, verba sequentur, dicevano i latini. O anche Nomina sunt consequentia rerum. Il nesso tra cose e parole, fatti e nomi è imprescindibile. La scrittura ne consacra il senso.

Scrivere permette di mettere in ordine i pensieri, di esprimere con compiutezza emozioni e desideri, di motivare scelte. Di tradurre la complessità del reale in una forma ben articolata e controllata che altri può comprendere e condividere.

Viviamo, è vero, in una società segnata dalla prevalenza delle immagini e da un’idea del tempo istantaneo, dal “presentiamo”, dalle velleità del “tutto e subito” (“Instant economics – The real-time revolution”, ha titolato “The Economist” del 23 ottobre per un’inchiesta sulle frenesie finanziarie e il consumismo frettoloso). I social media, con la prevalenza del linguaggio dei like, hanno schiacciato i giudizi in sentimenti estremi di amore fanatico e odio. La scrittura s’è ridotta alla povertà dell’invettiva o dell’esagerata meraviglia. La potenza comunicativa s’è dilatata. Ma il  controllo latita. La manipolazione è devastante.

Anche per questo è necessario tornare al valore profondo delle parole, alla riscoperta del loro senso. Alla distanza che la buona scrittura impone per poter “dire” con chiarezza di sé, definire il mondo, raccontare esperienze e sensazioni. Superando la paura della scrittura. E ritrovando il gusto della chiarezza e, rileggendo Sciascia, della bellezza.

Fondazione Pirelli con #Ioleggoperché 2021

Promuovere la lettura e la cultura d’impresa tra le nuove generazioni. È con questo spirito che Fondazione Pirelli conferma, anche per quest’anno, il proprio impegno a favore di #ioleggoperché l’iniziativa di AIE, Associazione Italiana Editori, per la diffusione della lettura tra i più giovani e la creazione e il potenziamento delle biblioteche scolastiche.

L’edizione di #ioleggoperché di quest’anno, che ha come tema “Ripartiamo dai libri”, vedrà il coinvolgimento di 3,4 milioni di studenti, 20.388 scuole e 2.743 librerie e sarà sostenuta tra gli altri anche dal Ministero per la Cultura e vedrà la collaborazione del Ministero dell’Istruzione. Fondazione Pirelli sosterrà il progetto anche attraverso una serie di consigli di lettura e quiz per bambini e ragazzi dedicati al mondo dei libri, da seguire sui canali social.

Il sostegno a #ioleggoperché va ad affiancare il supporto fornito da Pirelli e dalla Fondazione Pirelli a numerose iniziative di promozione della lettura come il Premio Campiello, con il quale quest’anno è stato ideato il Premio Campiello Junior, riconoscimento letterario per opere di narrativa e poesia rivolte ai giovani lettori tra i 10 e i 14 anni, e come l’iniziativa Bookcity Milano, promossa dal Comune di Milano, che mette il libro e i lettori al centro di una serie di eventi sul territorio urbano.

Promuovere la lettura e la cultura d’impresa tra le nuove generazioni. È con questo spirito che Fondazione Pirelli conferma, anche per quest’anno, il proprio impegno a favore di #ioleggoperché l’iniziativa di AIE, Associazione Italiana Editori, per la diffusione della lettura tra i più giovani e la creazione e il potenziamento delle biblioteche scolastiche.

L’edizione di #ioleggoperché di quest’anno, che ha come tema “Ripartiamo dai libri”, vedrà il coinvolgimento di 3,4 milioni di studenti, 20.388 scuole e 2.743 librerie e sarà sostenuta tra gli altri anche dal Ministero per la Cultura e vedrà la collaborazione del Ministero dell’Istruzione. Fondazione Pirelli sosterrà il progetto anche attraverso una serie di consigli di lettura e quiz per bambini e ragazzi dedicati al mondo dei libri, da seguire sui canali social.

Il sostegno a #ioleggoperché va ad affiancare il supporto fornito da Pirelli e dalla Fondazione Pirelli a numerose iniziative di promozione della lettura come il Premio Campiello, con il quale quest’anno è stato ideato il Premio Campiello Junior, riconoscimento letterario per opere di narrativa e poesia rivolte ai giovani lettori tra i 10 e i 14 anni, e come l’iniziativa Bookcity Milano, promossa dal Comune di Milano, che mette il libro e i lettori al centro di una serie di eventi sul territorio urbano.

Al via Bookcity Milano 2021, anche quest’anno sostenuto da Pirelli

Dal 17 al 21 novembre 2021 riparte BookCity Milano 2021, l’iniziativa promossa dal Comune di Milano e dall’Associazione BookCity Milano, giunta quest’anno alla sua decima edizione, con l’obiettivo di mettere il libro e i lettori al centro di una serie di eventi sul territorio urbano. Anche quest’anno Pirelli, da sempre attenta al sostegno per le iniziative di promozione della lettura, riconferma il suo impegno a favore di Bookcity.

Il tema scelto per il 2021 è quello del “dopo la pandemia”. Trascorso oltre un anno dall’inizio dell’emergenza sanitaria ci si interrogherà sul futuro, ponendo interrogativi sia agli scrittori che ai lettori e cercando di rispondere mettendo il libro, la parola e il dialogo al centro della riflessione.

Sono oltre 1.400 gli eventi in programma, che si terranno in tutto il territorio milanese, in più di 260 sedi, ma anche online. . Non mancheranno gli appuntamenti #BCM nelle Università e le iniziative per le Scuole.

Nei precedenti anni Fondazione Pirelli ha realizzato diverse iniziative all’interno di Bookcity, come nel 2018 l’evento “Racconti di Milano città industriale”, in cui letteratura, conversazioni, parole e immagini delle fabbriche e dei quartieri milanesi si legavano tra ricordi e attualità. Nel 2019 due sono stati gli appuntamenti, con “Memoria d’impresa, qualità di risultato economico, città abilitante”, presso l’Università Bocconi, e “Umanesimo Industriale a Milano: impresa, scienza, letteratura. Un percorso storico culturale e sociale sugli intellettuali meridionali al Nord”, presso la Fondazione Corriere.

Per il programma completo dell’iniziativa potete visitare il sito ufficiale: bookcitymilano.it

Dal 17 al 21 novembre 2021 riparte BookCity Milano 2021, l’iniziativa promossa dal Comune di Milano e dall’Associazione BookCity Milano, giunta quest’anno alla sua decima edizione, con l’obiettivo di mettere il libro e i lettori al centro di una serie di eventi sul territorio urbano. Anche quest’anno Pirelli, da sempre attenta al sostegno per le iniziative di promozione della lettura, riconferma il suo impegno a favore di Bookcity.

Il tema scelto per il 2021 è quello del “dopo la pandemia”. Trascorso oltre un anno dall’inizio dell’emergenza sanitaria ci si interrogherà sul futuro, ponendo interrogativi sia agli scrittori che ai lettori e cercando di rispondere mettendo il libro, la parola e il dialogo al centro della riflessione.

Sono oltre 1.400 gli eventi in programma, che si terranno in tutto il territorio milanese, in più di 260 sedi, ma anche online. . Non mancheranno gli appuntamenti #BCM nelle Università e le iniziative per le Scuole.

Nei precedenti anni Fondazione Pirelli ha realizzato diverse iniziative all’interno di Bookcity, come nel 2018 l’evento “Racconti di Milano città industriale”, in cui letteratura, conversazioni, parole e immagini delle fabbriche e dei quartieri milanesi si legavano tra ricordi e attualità. Nel 2019 due sono stati gli appuntamenti, con “Memoria d’impresa, qualità di risultato economico, città abilitante”, presso l’Università Bocconi, e “Umanesimo Industriale a Milano: impresa, scienza, letteratura. Un percorso storico culturale e sociale sugli intellettuali meridionali al Nord”, presso la Fondazione Corriere.

Per il programma completo dell’iniziativa potete visitare il sito ufficiale: bookcitymilano.it

Come affrontare la complessità

La necessità di strumenti sofisticati per rispondere al disordine

Di fronte alla complessità occorre dotarsi di strumenti raffinati e sofisticati. Vale per tutti, anche, e soprattutto, per chi deve gestire organizzazioni della produzione alle prese con il continuo mutamento dei mercati. E’ da questa constatazione che prende le mosse il libro di Alessandro Cravera.

“Allenarsi alla complessità. Schemi cognitivi per decidere e agire in un mondo non ordinato”, è uno buon strumento per dotarsi di strumenti di conoscenza utili ad affrontare il disordine.

L’autore fonda il suo testo sull’osservazione del fatto che le competenze e le strategie che ogni giorno vengono utilizzate per governare l’incertezza e fronteggiare tradeoff e imprevisti non sono più adatte per l’attuale realtà sociale e organizzativa. A cambiare le carte in tavola, poi, non è solo l’incertezza, ma il fatto che ogni variabile, ogni azione e ogni dinamica siano tra loro correlate e interdipendenti, con effetti sia a livello locale sia globale. Precisato tutto questo, Cravera però osserva come si continui a fare affidamento a “capi” oppure a opinion makers che propongono risposte semplicistiche e inadeguate. Mentre occorrerebbe fare tutto il contrario.

Attraverso un approccio interdisciplinare, dove alle questioni manageriali si legano aspetti filosofici, psicologici e sociologici, il libro di Cravera offre allora un contributo alla costruzione di una cultura e un’educazione alla complessità. Con una sottolineatura importante: più dell’applicazione di best practice o modelli manageriali, a essere decisiva è la capacità di interpretare l’evoluzione del contesto in cui le organizzazioni si muovono e crescono.

Le poco più di 150 pagine si dipanano quindi partendo dalla definizione di complessità e di interconnessione per poi passare a ragionare su come “muoversi in un mondo interconnesso” e quindi sugli investimenti e sulle competenza che servono per effettuarli con efficacia. Per affrontare le sfide del futuro, è una delle conclusioni dell’autore, c’è bisogno di leader che sappiano navigare nella complessità, vedere in anticipo gli effetti delle proprie azioni e valutare i rischi e le opportunità per le generazioni future. Si tratta solo in apparenza di una conclusione scontata.

Allenarsi alla complessità. Schemi cognitivi per decidere e agire in un mondo non ordinato

Alessandro Cravera

Egea, 2021

La necessità di strumenti sofisticati per rispondere al disordine

Di fronte alla complessità occorre dotarsi di strumenti raffinati e sofisticati. Vale per tutti, anche, e soprattutto, per chi deve gestire organizzazioni della produzione alle prese con il continuo mutamento dei mercati. E’ da questa constatazione che prende le mosse il libro di Alessandro Cravera.

“Allenarsi alla complessità. Schemi cognitivi per decidere e agire in un mondo non ordinato”, è uno buon strumento per dotarsi di strumenti di conoscenza utili ad affrontare il disordine.

L’autore fonda il suo testo sull’osservazione del fatto che le competenze e le strategie che ogni giorno vengono utilizzate per governare l’incertezza e fronteggiare tradeoff e imprevisti non sono più adatte per l’attuale realtà sociale e organizzativa. A cambiare le carte in tavola, poi, non è solo l’incertezza, ma il fatto che ogni variabile, ogni azione e ogni dinamica siano tra loro correlate e interdipendenti, con effetti sia a livello locale sia globale. Precisato tutto questo, Cravera però osserva come si continui a fare affidamento a “capi” oppure a opinion makers che propongono risposte semplicistiche e inadeguate. Mentre occorrerebbe fare tutto il contrario.

Attraverso un approccio interdisciplinare, dove alle questioni manageriali si legano aspetti filosofici, psicologici e sociologici, il libro di Cravera offre allora un contributo alla costruzione di una cultura e un’educazione alla complessità. Con una sottolineatura importante: più dell’applicazione di best practice o modelli manageriali, a essere decisiva è la capacità di interpretare l’evoluzione del contesto in cui le organizzazioni si muovono e crescono.

Le poco più di 150 pagine si dipanano quindi partendo dalla definizione di complessità e di interconnessione per poi passare a ragionare su come “muoversi in un mondo interconnesso” e quindi sugli investimenti e sulle competenza che servono per effettuarli con efficacia. Per affrontare le sfide del futuro, è una delle conclusioni dell’autore, c’è bisogno di leader che sappiano navigare nella complessità, vedere in anticipo gli effetti delle proprie azioni e valutare i rischi e le opportunità per le generazioni future. Si tratta solo in apparenza di una conclusione scontata.

Allenarsi alla complessità. Schemi cognitivi per decidere e agire in un mondo non ordinato

Alessandro Cravera

Egea, 2021

Cultura del produrre e cultura dell’apprendere

Lo smart working analizzato da due punti di vista che diventano complementari

Lavorare da casa, studiare da casa. Nuove forme di organizzazione d’impresa e della formazione che stanno cambiando gli assetti di fabbriche, uffici e scuole. Cambiamento anche di cultura – del produrre e dell’apprendere -, che deve essere compreso a fondo, oltre che reso concreto nella quotidianità. “PCTO per l’acquisizione di competenze di smart working” – ricerca condotta da Gennaro Iaccarino, Lucia Bartoli, Ilenia Fronza e Luis Corral -, cerca di unire gli strumenti e le regole dello smart working aziendale con quelle della formazione scolastica attraverso un’esperienza di PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) basata su simulazione d’impresa, ma fortemente orientata all’acquisizione di competenze dello stesso smart working.

Gli autori sono partiti dall’analisi delle richieste del mondo del lavoro e hanno esaminato in particolare quali fossero le competenze necessarie a rendere il lavoro “smart”. Successivamente, la ricerca ha analizzato gli esiti di un progetto di simulazione d’impresa sviluppato in una classe terminale di un istituto tecnico di secondo grado. Un modo per verificare la bontà di un percorso di PCTO che, appunto, preveda obiettivi innovativi in grado di tenere conto dei cambiamenti rapidi in atto nel mondo del lavoro e della produzione.

Dopo aver messo a fuoco il concetto di smart working, gli autori approfondiscono le relazioni tra “competenze digitali e scuola” per passare poi alla simulazione di un’impresa in smart working condotta con gli studenti.

Nelle conclusioni gli autori compiono una saldatura tra condizioni attuali in cui si svolge lo smart working e ruolo della formazione scolastica: “Come tutti i cambiamenti repentini e non programmati, lo smart working ha posto anche una serie di problemi e di difficoltà che poco per volta bisognerà affrontare se, come sembra, questa nuova modalità entrerà a far parte della normalità per molti lavoratori. Il tema dello smart working dovrà essere affrontato dal legislatore con

una cura maggiore di quanto sia avvenuto finora; sindacati, imprese e lavoratori dovranno confrontarsi ampiamente sui diversi nodi problematici, per arrivare a soluzioni condivise e convincenti. La scuola, a sua volta, dovrà contribuire a sviluppare negli studenti le competenze necessarie ad entrare in questa nuova mentalità, senza dimenticare però l’obiettivo di formare cittadini dotati di spirito critico e di intraprendenza, e non semplici esecutori, indotti ad adattarsi supinamente a tutte le richieste delle aziende e del mercato”.

PCTO per l’acquisizione di competenze di smart working

Gennaro Iaccarino, Lucia Bartoli, Ilenia Fronza, Luis Corral

DIDAMATICA, Paper 50

Lo smart working analizzato da due punti di vista che diventano complementari

Lavorare da casa, studiare da casa. Nuove forme di organizzazione d’impresa e della formazione che stanno cambiando gli assetti di fabbriche, uffici e scuole. Cambiamento anche di cultura – del produrre e dell’apprendere -, che deve essere compreso a fondo, oltre che reso concreto nella quotidianità. “PCTO per l’acquisizione di competenze di smart working” – ricerca condotta da Gennaro Iaccarino, Lucia Bartoli, Ilenia Fronza e Luis Corral -, cerca di unire gli strumenti e le regole dello smart working aziendale con quelle della formazione scolastica attraverso un’esperienza di PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) basata su simulazione d’impresa, ma fortemente orientata all’acquisizione di competenze dello stesso smart working.

Gli autori sono partiti dall’analisi delle richieste del mondo del lavoro e hanno esaminato in particolare quali fossero le competenze necessarie a rendere il lavoro “smart”. Successivamente, la ricerca ha analizzato gli esiti di un progetto di simulazione d’impresa sviluppato in una classe terminale di un istituto tecnico di secondo grado. Un modo per verificare la bontà di un percorso di PCTO che, appunto, preveda obiettivi innovativi in grado di tenere conto dei cambiamenti rapidi in atto nel mondo del lavoro e della produzione.

Dopo aver messo a fuoco il concetto di smart working, gli autori approfondiscono le relazioni tra “competenze digitali e scuola” per passare poi alla simulazione di un’impresa in smart working condotta con gli studenti.

Nelle conclusioni gli autori compiono una saldatura tra condizioni attuali in cui si svolge lo smart working e ruolo della formazione scolastica: “Come tutti i cambiamenti repentini e non programmati, lo smart working ha posto anche una serie di problemi e di difficoltà che poco per volta bisognerà affrontare se, come sembra, questa nuova modalità entrerà a far parte della normalità per molti lavoratori. Il tema dello smart working dovrà essere affrontato dal legislatore con

una cura maggiore di quanto sia avvenuto finora; sindacati, imprese e lavoratori dovranno confrontarsi ampiamente sui diversi nodi problematici, per arrivare a soluzioni condivise e convincenti. La scuola, a sua volta, dovrà contribuire a sviluppare negli studenti le competenze necessarie ad entrare in questa nuova mentalità, senza dimenticare però l’obiettivo di formare cittadini dotati di spirito critico e di intraprendenza, e non semplici esecutori, indotti ad adattarsi supinamente a tutte le richieste delle aziende e del mercato”.

PCTO per l’acquisizione di competenze di smart working

Gennaro Iaccarino, Lucia Bartoli, Ilenia Fronza, Luis Corral

DIDAMATICA, Paper 50

Raccontare Milano con le mille gru dei cantierie i versi di Saba in cui “si accendono parole”

Raccontare Milano, fuori dai luoghi comuni, proprio in questi tempi di risvegli e ripresa. Cercando di capire, tra storia e attualità, anche il senso profondo delle implicazioni delle recenti dichiarazioni del sindaco di Londra Sadiq Khan: “Londra e Milano, fari per l’ambiente”, date le politiche innovative scelte per difendere e valorizzare lo sviluppo sostenibile (“Corriere della Sera”, 4 novembre).

Per farlo, si può anche partire da una strada estranea alla politica. E affidarsi alla capacità d’epifania della poesia. Rileggendo, per esempio, le parole di Umberto Saba: “Tra le tue pietre e le tue nebbie faccio villeggiatura. Mi riposo in piazza del Duomo. Invece di stelle, ogni sera si accendono parole”.

Sono versi dal “Canzoniere”, pubblicato da Einaudi nel 1965. E rendono manifesto il carattere di una città il cui ritmo vitale consente spazi di quiete e di riflessione e in cui l’attitudine alla conversazione, alla cultura narrativa e, appunto, al fare poesia è una profonda dimensione dell’anima. Da considerare strettamente connessa alla volontà del fare, del progettare, dell’intraprendere, del lavorare. E, come s’addice a una vera e propria capitale di libri e giornali, all’inclinazione al raccontare.

Milano città di ingegneri filosofi (Leonardo Sinisgalli) e di letterati sostenitori della “cultura politecnica” (Elio Vittorini), di imprenditori amanti del teatro (i Pirelli, i Borletti e i Falck, fondatori del Piccolo Teatro di Paolo Grassi e Giorgio Strelher), di banchieri umanisti (Raffaele Mattioli, presidente della Banca Commerciale Italiana) e di industriali mecenati. Milano, ancor oggi, da vivere e scrivere, seguendo le indicazioni di Alberto Savinio: “Ascolto il tuo cuore, città…”, come s’annunciava con amorosa curiosità nel difficile inizio degli anni Quaranta, andando alla scoperta di una Milano “dotta e meditativa”, “romantica”, “tutta pietra in apparenza e dura” ma anche “morbida di giardini interni”.

Le “pietre” di Saba. Le “pietre” di Savinio. E adesso? Le “pietre” miste al vetro e all’acciaio dei grattacieli luminosi di Porta Nuova e CityLife, quelle delle periferie che in tanti tentano di “rammendare” secondo le indicazioni di Renzo Piano e quelle altre delle università che fanno crescere accanto agli edifici storici (la Statale in via Festa del Perdono, la Cattolica a un passo da Sant’Ambrogio, il Politecnico in piazza Leonardo Da Vinci) le nuove sedi in Bovisa, in Bicocca, nei campus Bocconi e Iulm a sud della città o negli spazi di Mind, “Milan Innovation District”, proprio là dove si sono celebrati i successi internazionali dell’Expo 2015.

Passato e presente, memoria e innovazione. Come s’addice a una metropoli che ha 200mila studenti universitari e ne continua ad attrarre migliaia da tutto il mondo. Milano colta e magistrale, luogo da buoni maestri. O anche, perché no?, ascoltando Lucio Dalla, “Milano che ride e si diverte…” o “Milano lontana dal cielo/ tra la vita e la morte continua il tuo mistero”.

Un mistero davvero? Forse, la chiave per provare a decifrare quello che potremmo chiamare “l’umanesimo dinamico” di Milano, sta nell’originale sintesi tra cultura di radici classiche, conoscenze scientifiche e vocazione imprenditoriale. E, soprattutto, in una capacità di concepire il lavoro come impegno serio, cura per la qualità di prodotti e processi di produzione, scrupolo a fare bene e, contemporaneamente, come segno di identità personale, appartenenza a una comunità, valore di cittadinanza. Ricordando qui, ancora una volta, le parole essenziali dell’editto del vescovo Ariberto d’Intimiano, nel 1018: “Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”.

Per costruire il racconto di un grande cambiamento in corso, dopo la crisi da pandemia e recessione, si può guardare la grande mappa urbana della metropoli in trasformazione e prendere nota delle più recenti novità.

Vanno avanti speditamente i lavori di MilanoSesto, una delle più importanti iniziative europee di rigenerazione urbana, seguita da Hines su un progetto di Foster+Partners nell’area che sino agli anni Ottanta ospitava le gigantesche Acciaierie Falck: uno spazio da 1,5milioni di metri quadri su cui sorgeranno abitazioni, servizi, uffici, una “città della salute” progettata da Mario Cucinella e una avveniristica stazione ferroviaria progettata da Renzo Piano, insieme a tanto verde (10mila nuovi alberi) e strutture per il social housing, case a prezzo contenuto per studenti e abitanti a basso reddito. Al Social Housing ci si affida anche nell’area dell’ex Macello, con un intervento di Redo, una “benefit company” presieduta da Carlo Cerami e con risorse di Fondazione Cariplo, Cassa Depositi e Prestiti e Intesa San Paolo: “Abitazioni a basso impatto ambientale e basso costo”, spiega Cerami.

Altri cantieri si aprono, a San Siro e al Gratosoglio, per il rilancio dei quartieri popolari. Si espande, tra il Lorenteggio e il Naviglio Grande, l’idea del “Bosco Verticale” di Stefano Boeri, un quartiere disteso nel verde urbano, ai margini della ricostruzione degli spazi dell’ex stazione ferroviaria di Porta Genova. E, proprio in centro della città, proseguono rapidamente i lavori di ristrutturazione della Torre Velasca, mentre il fondo immobiliare internazionale Blackstone compra 14 palazzi storici nel “Quadrilatero della Moda” tra Montenapoleone e via Spiga, con un investimento da 1,5 miliardi.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, raccontando di strade e piazza, aree dismesse da valorizzare e luoghi residenziali da fare rivivere. Cantieri e gru. Progetti da archistar e ristrutturazioni. Tutto in movimento. Come dimostrano anche i dati di Unioncamere per la Lombardia: il volume d’affari dell’edilizia nel 2021 è cresciuto del 37,4%, un vero e proprio boom che ha Milano metropoli come baricentro.

Ecco il punto su cui riflettere. Milano come baricentro. Città grande. Città aperta. Nodo di flussi di idee, iniziative, interessi, risorse finanziarie, attività d’impresa. E di persone. Con la forza di saper intessere legami e mettere in relazione diversità. Diversità come valore. E valori su cui fondare tendenze di sviluppo diffuse.

Le metropoli, d’altronde, sono così. Movimento. Trasformazione. E, perché no?, metamorfosi.

Milano, infatti, va letta nel contesto del grande rettangolo luminoso fotografato nel 2017 dalla Stazione Spaziale Internazionale comandata da Luca Parmitano. Una rete di luci dal Nord Ovest di Torino e Genova al Nord Est di Padova, Venezia, Udine e Trieste, con la linea di confine delle Alpi a Nord e la dinamica Emilia della media impresa diffusa verso Sud. Un reticolo di metropoli, città grandi, medie e piccole, paesi operosi, industrie diffuse sui territori, vie di comunicazione strettamente legate tutt’attorno ai grandi assi delle autostrade A1 e A4 e alle infrastrutture dell’Alta Velocità. Infrastrutture high tech che hanno cambiato profondamente la geografia economica e sociale.

E’ una delle zone economiche e sociali più integrate, dinamiche e sviluppate d’Europa. Una piattaforma che tiene in relazione l’Europa continentale con il Mediterraneo. Un insieme di territori ricchi di capitale sociale positivo, tra competitività e solidarietà, nella collaborazione tra istituzioni pubbliche tutto sommato efficienti e imprese private capaci di stare sui mercati del mondo. Imprese innovative, coesive, impegnate sui temi della sostenibilità ambientale e sociale. Un mondo complesso, denso non solo di luci ma anche di ombre e contraddizioni, economiche e sociali. Ma pur sempre un mondo in cambiamento positivo.

Milano si muove dentro questi orizzonti. E cresce. Innova. E integra. Tutt’altro che perfetta. Ma comunque, nel tempo, consapevole della sua stessa fragilità, dei suoi limiti.

Milano città di intraprendenza. E di coscienza critica.

Una coscienza indispensabile per prepararsi in modo umano al tempo in cui un nuovo Umberto Saba possa trovare sosta e riposo e scoprire, anche lui, che “in piazza del Duomo, invece di stelle, ogni sera si accendono parole”.

Raccontare Milano, fuori dai luoghi comuni, proprio in questi tempi di risvegli e ripresa. Cercando di capire, tra storia e attualità, anche il senso profondo delle implicazioni delle recenti dichiarazioni del sindaco di Londra Sadiq Khan: “Londra e Milano, fari per l’ambiente”, date le politiche innovative scelte per difendere e valorizzare lo sviluppo sostenibile (“Corriere della Sera”, 4 novembre).

Per farlo, si può anche partire da una strada estranea alla politica. E affidarsi alla capacità d’epifania della poesia. Rileggendo, per esempio, le parole di Umberto Saba: “Tra le tue pietre e le tue nebbie faccio villeggiatura. Mi riposo in piazza del Duomo. Invece di stelle, ogni sera si accendono parole”.

Sono versi dal “Canzoniere”, pubblicato da Einaudi nel 1965. E rendono manifesto il carattere di una città il cui ritmo vitale consente spazi di quiete e di riflessione e in cui l’attitudine alla conversazione, alla cultura narrativa e, appunto, al fare poesia è una profonda dimensione dell’anima. Da considerare strettamente connessa alla volontà del fare, del progettare, dell’intraprendere, del lavorare. E, come s’addice a una vera e propria capitale di libri e giornali, all’inclinazione al raccontare.

Milano città di ingegneri filosofi (Leonardo Sinisgalli) e di letterati sostenitori della “cultura politecnica” (Elio Vittorini), di imprenditori amanti del teatro (i Pirelli, i Borletti e i Falck, fondatori del Piccolo Teatro di Paolo Grassi e Giorgio Strelher), di banchieri umanisti (Raffaele Mattioli, presidente della Banca Commerciale Italiana) e di industriali mecenati. Milano, ancor oggi, da vivere e scrivere, seguendo le indicazioni di Alberto Savinio: “Ascolto il tuo cuore, città…”, come s’annunciava con amorosa curiosità nel difficile inizio degli anni Quaranta, andando alla scoperta di una Milano “dotta e meditativa”, “romantica”, “tutta pietra in apparenza e dura” ma anche “morbida di giardini interni”.

Le “pietre” di Saba. Le “pietre” di Savinio. E adesso? Le “pietre” miste al vetro e all’acciaio dei grattacieli luminosi di Porta Nuova e CityLife, quelle delle periferie che in tanti tentano di “rammendare” secondo le indicazioni di Renzo Piano e quelle altre delle università che fanno crescere accanto agli edifici storici (la Statale in via Festa del Perdono, la Cattolica a un passo da Sant’Ambrogio, il Politecnico in piazza Leonardo Da Vinci) le nuove sedi in Bovisa, in Bicocca, nei campus Bocconi e Iulm a sud della città o negli spazi di Mind, “Milan Innovation District”, proprio là dove si sono celebrati i successi internazionali dell’Expo 2015.

Passato e presente, memoria e innovazione. Come s’addice a una metropoli che ha 200mila studenti universitari e ne continua ad attrarre migliaia da tutto il mondo. Milano colta e magistrale, luogo da buoni maestri. O anche, perché no?, ascoltando Lucio Dalla, “Milano che ride e si diverte…” o “Milano lontana dal cielo/ tra la vita e la morte continua il tuo mistero”.

Un mistero davvero? Forse, la chiave per provare a decifrare quello che potremmo chiamare “l’umanesimo dinamico” di Milano, sta nell’originale sintesi tra cultura di radici classiche, conoscenze scientifiche e vocazione imprenditoriale. E, soprattutto, in una capacità di concepire il lavoro come impegno serio, cura per la qualità di prodotti e processi di produzione, scrupolo a fare bene e, contemporaneamente, come segno di identità personale, appartenenza a una comunità, valore di cittadinanza. Ricordando qui, ancora una volta, le parole essenziali dell’editto del vescovo Ariberto d’Intimiano, nel 1018: “Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”.

Per costruire il racconto di un grande cambiamento in corso, dopo la crisi da pandemia e recessione, si può guardare la grande mappa urbana della metropoli in trasformazione e prendere nota delle più recenti novità.

Vanno avanti speditamente i lavori di MilanoSesto, una delle più importanti iniziative europee di rigenerazione urbana, seguita da Hines su un progetto di Foster+Partners nell’area che sino agli anni Ottanta ospitava le gigantesche Acciaierie Falck: uno spazio da 1,5milioni di metri quadri su cui sorgeranno abitazioni, servizi, uffici, una “città della salute” progettata da Mario Cucinella e una avveniristica stazione ferroviaria progettata da Renzo Piano, insieme a tanto verde (10mila nuovi alberi) e strutture per il social housing, case a prezzo contenuto per studenti e abitanti a basso reddito. Al Social Housing ci si affida anche nell’area dell’ex Macello, con un intervento di Redo, una “benefit company” presieduta da Carlo Cerami e con risorse di Fondazione Cariplo, Cassa Depositi e Prestiti e Intesa San Paolo: “Abitazioni a basso impatto ambientale e basso costo”, spiega Cerami.

Altri cantieri si aprono, a San Siro e al Gratosoglio, per il rilancio dei quartieri popolari. Si espande, tra il Lorenteggio e il Naviglio Grande, l’idea del “Bosco Verticale” di Stefano Boeri, un quartiere disteso nel verde urbano, ai margini della ricostruzione degli spazi dell’ex stazione ferroviaria di Porta Genova. E, proprio in centro della città, proseguono rapidamente i lavori di ristrutturazione della Torre Velasca, mentre il fondo immobiliare internazionale Blackstone compra 14 palazzi storici nel “Quadrilatero della Moda” tra Montenapoleone e via Spiga, con un investimento da 1,5 miliardi.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, raccontando di strade e piazza, aree dismesse da valorizzare e luoghi residenziali da fare rivivere. Cantieri e gru. Progetti da archistar e ristrutturazioni. Tutto in movimento. Come dimostrano anche i dati di Unioncamere per la Lombardia: il volume d’affari dell’edilizia nel 2021 è cresciuto del 37,4%, un vero e proprio boom che ha Milano metropoli come baricentro.

Ecco il punto su cui riflettere. Milano come baricentro. Città grande. Città aperta. Nodo di flussi di idee, iniziative, interessi, risorse finanziarie, attività d’impresa. E di persone. Con la forza di saper intessere legami e mettere in relazione diversità. Diversità come valore. E valori su cui fondare tendenze di sviluppo diffuse.

Le metropoli, d’altronde, sono così. Movimento. Trasformazione. E, perché no?, metamorfosi.

Milano, infatti, va letta nel contesto del grande rettangolo luminoso fotografato nel 2017 dalla Stazione Spaziale Internazionale comandata da Luca Parmitano. Una rete di luci dal Nord Ovest di Torino e Genova al Nord Est di Padova, Venezia, Udine e Trieste, con la linea di confine delle Alpi a Nord e la dinamica Emilia della media impresa diffusa verso Sud. Un reticolo di metropoli, città grandi, medie e piccole, paesi operosi, industrie diffuse sui territori, vie di comunicazione strettamente legate tutt’attorno ai grandi assi delle autostrade A1 e A4 e alle infrastrutture dell’Alta Velocità. Infrastrutture high tech che hanno cambiato profondamente la geografia economica e sociale.

E’ una delle zone economiche e sociali più integrate, dinamiche e sviluppate d’Europa. Una piattaforma che tiene in relazione l’Europa continentale con il Mediterraneo. Un insieme di territori ricchi di capitale sociale positivo, tra competitività e solidarietà, nella collaborazione tra istituzioni pubbliche tutto sommato efficienti e imprese private capaci di stare sui mercati del mondo. Imprese innovative, coesive, impegnate sui temi della sostenibilità ambientale e sociale. Un mondo complesso, denso non solo di luci ma anche di ombre e contraddizioni, economiche e sociali. Ma pur sempre un mondo in cambiamento positivo.

Milano si muove dentro questi orizzonti. E cresce. Innova. E integra. Tutt’altro che perfetta. Ma comunque, nel tempo, consapevole della sua stessa fragilità, dei suoi limiti.

Milano città di intraprendenza. E di coscienza critica.

Una coscienza indispensabile per prepararsi in modo umano al tempo in cui un nuovo Umberto Saba possa trovare sosta e riposo e scoprire, anche lui, che “in piazza del Duomo, invece di stelle, ogni sera si accendono parole”.

Pirelli in un mondo in movimento per la XX Settimana della Cultura d’Impresa

Fondazione Pirelli è presente anche quest’anno alla Settimana della Cultura d’Impresa, la rassegna di iniziative sulla cultura imprenditoriale promossa da Museimpresa che, per celebrare la sua ventesima edizione, offre un ricco palinsesto di eventi che si concluderà a dicembre 2021. Due sono le iniziative proposte da Fondazione Pirelli: la prima, “Milano all’orizzonte: la città vista dal Grattacielo”, programmata per lunedì 8 novembre, ha avuto come protagonista il Pirellone che, attraverso i suoi 60 anni di vita e le sue trasformazioni, ha tracciato anche la storia della “città verticale”.

Le visite guidate alla mostra “Storie del Grattacielo” sono state arricchite dai reading di un attore che ha interpretato alcuni personaggi legati a questo celebre simbolo della modernità: Gio Ponti con la sua idea di città del futuro, Dino Buzzati e la Rivista Pirelli, Bob Noorda con il simbolo della Rosa Camuna, e molti altri.

I visitatori hanno potuto inoltre trasformarsi in “fotoreporter” e immortalare il panorama di Milano dal 26° piano del Grattacielo, un edificio che viene dal passato e che guarda, dall’alto, al futuro.

Giovedì 11 e venerdì 12 novembre le visite guidate negli spazi della nostra Fondazione porteranno i partecipanti “in viaggio con Pirelli”. Attraverso i documenti conservati nel’nostro Archivio Storico, sarà possibile scoprire i prodotti in gomma e i materiali innovativi che ci hanno da sempre accompagnato nei viaggi, le campagne pubblicitarie degli anni Cinquanta e Sessanta che invitavano milioni di automobilisti a spostarsi in modo sicuro con i pneumatici Pirelli, le inchieste sul turismo, i racconti firmati da grandi narratori del Novecento e i reportage dei fotografi che hanno mostrato terre lontane attraverso il loro sguardo d’autore sulle pagine della Rivista Pirelli.

Tutto è pronto per partire: inizia qui un altro viaggio nella storia e nella cultura d’impresa di Pirelli.

Per partecipare alle nostre iniziative:

Lunedì 8 novembre 2021, Grattacielo Pirelli, via Fabio Filzi 22, Milano

Orario di inizio visite: 14.30, 16.00 e 17.30 (tre turni, durata 60 minuti circa ciascuno)

Prenotazione obbligatoria cliccando qui

Giovedì 11 e venerdì 12 novembre 2021, Fondazione Pirelli, ingresso da viale Sarca 220, Milano

Orario di inizio visita: 18.00 (durata 60 minuti circa)

Prenotazione obbligatoria cliccando qui entro lunedì 8 novembre

Fondazione Pirelli è presente anche quest’anno alla Settimana della Cultura d’Impresa, la rassegna di iniziative sulla cultura imprenditoriale promossa da Museimpresa che, per celebrare la sua ventesima edizione, offre un ricco palinsesto di eventi che si concluderà a dicembre 2021. Due sono le iniziative proposte da Fondazione Pirelli: la prima, “Milano all’orizzonte: la città vista dal Grattacielo”, programmata per lunedì 8 novembre, ha avuto come protagonista il Pirellone che, attraverso i suoi 60 anni di vita e le sue trasformazioni, ha tracciato anche la storia della “città verticale”.

Le visite guidate alla mostra “Storie del Grattacielo” sono state arricchite dai reading di un attore che ha interpretato alcuni personaggi legati a questo celebre simbolo della modernità: Gio Ponti con la sua idea di città del futuro, Dino Buzzati e la Rivista Pirelli, Bob Noorda con il simbolo della Rosa Camuna, e molti altri.

I visitatori hanno potuto inoltre trasformarsi in “fotoreporter” e immortalare il panorama di Milano dal 26° piano del Grattacielo, un edificio che viene dal passato e che guarda, dall’alto, al futuro.

Giovedì 11 e venerdì 12 novembre le visite guidate negli spazi della nostra Fondazione porteranno i partecipanti “in viaggio con Pirelli”. Attraverso i documenti conservati nel’nostro Archivio Storico, sarà possibile scoprire i prodotti in gomma e i materiali innovativi che ci hanno da sempre accompagnato nei viaggi, le campagne pubblicitarie degli anni Cinquanta e Sessanta che invitavano milioni di automobilisti a spostarsi in modo sicuro con i pneumatici Pirelli, le inchieste sul turismo, i racconti firmati da grandi narratori del Novecento e i reportage dei fotografi che hanno mostrato terre lontane attraverso il loro sguardo d’autore sulle pagine della Rivista Pirelli.

Tutto è pronto per partire: inizia qui un altro viaggio nella storia e nella cultura d’impresa di Pirelli.

Per partecipare alle nostre iniziative:

Lunedì 8 novembre 2021, Grattacielo Pirelli, via Fabio Filzi 22, Milano

Orario di inizio visite: 14.30, 16.00 e 17.30 (tre turni, durata 60 minuti circa ciascuno)

Prenotazione obbligatoria cliccando qui

Giovedì 11 e venerdì 12 novembre 2021, Fondazione Pirelli, ingresso da viale Sarca 220, Milano

Orario di inizio visita: 18.00 (durata 60 minuti circa)

Prenotazione obbligatoria cliccando qui entro lunedì 8 novembre

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