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Sostenibilità attenta all’impresa e al lavoro, ecco come evitare i rischi del declino industriale

L’industria italiana attraversa una stagione di difficoltà: la produzione industriale è in calo da quasi due anni (da 22 mesi, per l’esattezza), solo il 6% delle imprese vede miglioramenti per l’economia (indagine Bankitalia; “la Repubblica”, 15 gennaio) e anche Confindustria non nasconde rilevanti preoccupazioni, con il presidente dell’associazione Emanuele Orsini che sottolinea le conseguenze negative del caro energia (in Italia, i prezzi più alti d’Europa, insostenibili per l’industria) e dei rischi di aumento dei dazi (annunciati dal nuovo presidente Usa Donald Trump anche nei confronti della Ue) e chiede dunque al governo di Roma e alla Commissione di Bruxelles “un piano industriale” che abbia come priorità l’energia (a cominciare dal nucleare) e la ripresa degli investimenti produttivi (“Il Sole24Ore”, 26 gennaio).
Nuvole scure, insomma, nei cieli dell’economia, con la Germania, ex gigante produttivo e motore industriale per tutta l’Europa, ancora in difficoltà, soprattutto nel settore dell’auto, e con una crescita ridotta, per la Ue, all’1% nel ‘25 (a ottobre si parlava dell’1,2%). In Italia, si sta anche un po’ peggio: 0,6% nel ‘24 (il governo sperava fosse l’1%) e 0,7% nel ‘25.

“L’industria va male ma non preoccupa nessuno”, critica Ferruccio de Bortoli (“Corriere della Sera”, 18 gennaio), rilevando una scarsa attenzione di Palazzo Chigi per l’andamento scadente della produttività e per le ombre che si allungano anche sulle esportazioni, tradizionale punto di forza dell’Italia.
Il tema della crisi dell’industria è tutt’altro che marginale. E non ci si può certo consolare con i dati positivi, sul Pil e sull’occupazione, che vengono dai buoni risultati del turismo. Perché, al di là dei degli elementi negativi determinati da sempre più massicce e stravolgenti presenze turistiche (quelle che vanno sotto il nome sintetico di overtourism) soprattutto nelle città d’arte e negli luoghi ambientalmente più fragili, resta il fatto che il turismo è sì una componente essenziale del Pil e una fonte di redditi, di lavoro e di benessere diffuso, ma è anche soggetto a una certa volatilità dei flussi, genera lavoro in parte stagionale, precario e povero e comunque non incide sul peso politico e strategico di un Paese nel contesto internazionale.

Un paio di mesi fa, appunto, per stigmatizzare gli smottamenti verso il declino europeo, il “Financial Times” ha ammonito Bruxelles e le altre capitali sul rischio che l’Europa possa rapidamente diventare un Grand Hotel in cui i ricchi e potenti del mondo vengano a fare eleganti e comode vacanze.
Per evitare una simile tendenza, bisogna tornare alla centralità dell’industria, alle manifatture di qualità che stimolano innovazione e cambiamento e producono risorse nel lungo periodo, alle scelte produttive che toccano l’energia (e dunque anche la sicurezza) e i beni durevoli, al lavoro qualificato tra industria e ricerca, alle grandi opzioni strategiche produttive e competitive.

Costruire il futuro dell’industria e del nostro Paese”, annuncia lucidamente il ministro degli Esteri Antonio Tajani (“Il Sole24Ore”, 25 gennaio), insistendo sulla necessità di “rafforzare e difendere i pilasti italiani del manifatturiero e del made in Italy” e cioè “food, fashion, furniture, design e tecnologia” e dare priorità “ai settori industriali strategici per sicurezza, salute e sviluppo sociale, come farmaceutico, difesa/aerospazio e Information Technology”, parlando di scelte contro la crisi dell’automotive (l’industria dell’auto è caduta del 34% in due anni) e appellandosi alle responsabilità di Bruxelles: “Fermare il declino economico è una sfida europea”.
Come? Guardando, più in dettaglio, dati e fatti e cercando, nel quadro generale della crisi, quegli elementi su cui fare leva per avviare azioni e impegni per la ripresa. Tenendo conto del parere di autorevoli economisti e delle conclusioni dell’ultimo Rapporto Symbola sui primati positivi dell’Italia racchiusi “in dieci selfie”.
Vediamo meglio, dunque. “Il made in Italy è un patrimonio industriale da tutelare e su cui investire”, sostiene Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, economista tra i più attenti e documentati sulle condizioni dell’industria italiana (“Il Sole24Ore”, 16 gennaio). L’Italia resta saldamente al quarto posto, nella classifica degli esportatori mondiali, dopo Cina, Usa e Germania e prima di Francia, Giappone e Corea del Sud, al netto del peso degli autoveicoli (che rappresentano appena l’8% dell’export mondiale). Il che significa che nei settori manifatturieri principali l’industria italiana continua a reggere la competizione, soprattutto nelle nicchie a maggior valore aggiunto per meccanica e meccatronica, robotica, farmaceutica e chimica, gomma e plastica, avionica e aerospaziale, cantieristica di lusso, oltre che arredamento, abbigliamento ed agroalimentare.

Abbiamo, è vero, un problema di scarsa produttività. Subiamo fortemente la crisi demografica e la carenza di personale qualificato (già adesso un grave problema, destinato in prospettiva a peggiorare). Viviamo le conseguenze negative dei costi elevati dell’energia e le difficoltà legate alla burocrazia inefficiente e agli alti carichi fiscali. Eppure, nonostante tutto, reggiamo.
Non si potrà fare affidamento a lungo sulle capacità del “genio italiano”, soprattutto di fronte all’evoluzione delle tecnologie. Ma abbiamo comunque buone carte in mano.
“Non è una débâcle, la nostra industria resta competitiva”, conferma Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo (Corriere Economia, 20 gennaio), parlando di “crisi ciclica e non strutturale” (a parte l’automotive), di incertezze geopolitiche, di limiti relativi alla difficile applicazione delle norme su Industria 5.0, di rinvio degli investimenti in attesa del calo dei tassi ma anche di fattori positivi legati alla trasformazione di gran parte dell’apparato industriale italiano, dopo la Grande Crisi del 2008/2009, in direzione di una migliore e maggiore produttività: “Le imprese italiane hanno una capacità di reazione superiore a quella dei tedeschi”.
C’è un altro punto di forza: la capacità di una parte rilevante delle nostre imprese a considerare la sostenibilità, ambientale e sociale, come asset fondamentali della propria dimensione competitiva (Pirelli ne è da tempo un caso esemplare) e non tanto come una scelta di marketing e di comunicazione, né come un furbo posizionamento green washing.

Sono stagioni difficili, infatti. In contesti geopolitici segnati da contrasti e conflitti. E con un distacco crescente di importanti attori internazionali (a cominciare dagli Usa, nella nuova strategia della presidenza di Donald Trump) rispetto alle indicazioni ESG e ai vincoli per contrastare i cambiamenti climatici. Si mette in discussione il Green Deal. E anche all’interno della Ue si riflette criticamente sulle dannose rigidità delle politiche ambientali seguite finora (burocratiche e ideologiche, dicono i critici, pensando soprattutto alle scelte sul primato dell’auto elettrica e alle multe per i motori endotermici). L’obiettivo è di arrivare rapidamente a nuove politiche ambientali ed sociali, fondate sul rispetto degli obiettivi Esg ma anche sulla “neutralità tecnologica” per raggiungerli. Un Green Deal di nuova generazione, che abbia al suo centro la difesa e il rilancio della centralità dell’industria europea, per fare fronte alla concorrenza che arriva dagli Usa, dalla Cina e, tra poco, dall’India.
Per tornare all’Italia, indicazioni quanto mai interessanti arrivano, come abbiamo detto, dall’annuale Rapporto preparato dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere “L’Italia in dieci selfie” (“Il Sole24Ore”, 14 gennaio): una documentazione accurata sui primati dell’Italia per l’economia circolare (il miglior tasso europeo di riciclo dei rifiuti speciali e urbani: 91,6%, contro una media Ue del 57,9%), per l’acciaio “verde” (la quota di quello prodotto con ciclo a forno elettrico è dell’86%, contro il 68% degli Usa), per la forza del maggior operatore al mondo nelle rinnovabili tra le utilities quotate (Enel, attraverso Enel Green Power) e per l’industria made in Italy in vetta per aziende agricole bio e per le capacità export dalla farmaceutica e dell’arredo.
Si compete bene in modo sostenibile, “l’Italia cresce quando fa bene l’Italia”, conferma Ermete Realacci, presidente di Symbola. E cioè “dà il meglio di sé quando incrocia i suoi cromosomi antichi con un modo tutto italiano di fare economia, che tiene insieme innovazione e tradizione, coesione sociale, nuove tecnologie e bellezza, capacità di parlare al mondo senza perdere legami con territori e comunità”.
Una sostenibilità produttiva, insomma. Sensibile ai temi ambientali ma anche sociali (al lavoro, al benessere diffuso). E attenta alla competitività e allo sviluppo. Una sostenibilità industriale. Un buon modo per crescere meglio.

(Foto Getty Images)

L’industria italiana attraversa una stagione di difficoltà: la produzione industriale è in calo da quasi due anni (da 22 mesi, per l’esattezza), solo il 6% delle imprese vede miglioramenti per l’economia (indagine Bankitalia; “la Repubblica”, 15 gennaio) e anche Confindustria non nasconde rilevanti preoccupazioni, con il presidente dell’associazione Emanuele Orsini che sottolinea le conseguenze negative del caro energia (in Italia, i prezzi più alti d’Europa, insostenibili per l’industria) e dei rischi di aumento dei dazi (annunciati dal nuovo presidente Usa Donald Trump anche nei confronti della Ue) e chiede dunque al governo di Roma e alla Commissione di Bruxelles “un piano industriale” che abbia come priorità l’energia (a cominciare dal nucleare) e la ripresa degli investimenti produttivi (“Il Sole24Ore”, 26 gennaio).
Nuvole scure, insomma, nei cieli dell’economia, con la Germania, ex gigante produttivo e motore industriale per tutta l’Europa, ancora in difficoltà, soprattutto nel settore dell’auto, e con una crescita ridotta, per la Ue, all’1% nel ‘25 (a ottobre si parlava dell’1,2%). In Italia, si sta anche un po’ peggio: 0,6% nel ‘24 (il governo sperava fosse l’1%) e 0,7% nel ‘25.

“L’industria va male ma non preoccupa nessuno”, critica Ferruccio de Bortoli (“Corriere della Sera”, 18 gennaio), rilevando una scarsa attenzione di Palazzo Chigi per l’andamento scadente della produttività e per le ombre che si allungano anche sulle esportazioni, tradizionale punto di forza dell’Italia.
Il tema della crisi dell’industria è tutt’altro che marginale. E non ci si può certo consolare con i dati positivi, sul Pil e sull’occupazione, che vengono dai buoni risultati del turismo. Perché, al di là dei degli elementi negativi determinati da sempre più massicce e stravolgenti presenze turistiche (quelle che vanno sotto il nome sintetico di overtourism) soprattutto nelle città d’arte e negli luoghi ambientalmente più fragili, resta il fatto che il turismo è sì una componente essenziale del Pil e una fonte di redditi, di lavoro e di benessere diffuso, ma è anche soggetto a una certa volatilità dei flussi, genera lavoro in parte stagionale, precario e povero e comunque non incide sul peso politico e strategico di un Paese nel contesto internazionale.

Un paio di mesi fa, appunto, per stigmatizzare gli smottamenti verso il declino europeo, il “Financial Times” ha ammonito Bruxelles e le altre capitali sul rischio che l’Europa possa rapidamente diventare un Grand Hotel in cui i ricchi e potenti del mondo vengano a fare eleganti e comode vacanze.
Per evitare una simile tendenza, bisogna tornare alla centralità dell’industria, alle manifatture di qualità che stimolano innovazione e cambiamento e producono risorse nel lungo periodo, alle scelte produttive che toccano l’energia (e dunque anche la sicurezza) e i beni durevoli, al lavoro qualificato tra industria e ricerca, alle grandi opzioni strategiche produttive e competitive.

Costruire il futuro dell’industria e del nostro Paese”, annuncia lucidamente il ministro degli Esteri Antonio Tajani (“Il Sole24Ore”, 25 gennaio), insistendo sulla necessità di “rafforzare e difendere i pilasti italiani del manifatturiero e del made in Italy” e cioè “food, fashion, furniture, design e tecnologia” e dare priorità “ai settori industriali strategici per sicurezza, salute e sviluppo sociale, come farmaceutico, difesa/aerospazio e Information Technology”, parlando di scelte contro la crisi dell’automotive (l’industria dell’auto è caduta del 34% in due anni) e appellandosi alle responsabilità di Bruxelles: “Fermare il declino economico è una sfida europea”.
Come? Guardando, più in dettaglio, dati e fatti e cercando, nel quadro generale della crisi, quegli elementi su cui fare leva per avviare azioni e impegni per la ripresa. Tenendo conto del parere di autorevoli economisti e delle conclusioni dell’ultimo Rapporto Symbola sui primati positivi dell’Italia racchiusi “in dieci selfie”.
Vediamo meglio, dunque. “Il made in Italy è un patrimonio industriale da tutelare e su cui investire”, sostiene Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, economista tra i più attenti e documentati sulle condizioni dell’industria italiana (“Il Sole24Ore”, 16 gennaio). L’Italia resta saldamente al quarto posto, nella classifica degli esportatori mondiali, dopo Cina, Usa e Germania e prima di Francia, Giappone e Corea del Sud, al netto del peso degli autoveicoli (che rappresentano appena l’8% dell’export mondiale). Il che significa che nei settori manifatturieri principali l’industria italiana continua a reggere la competizione, soprattutto nelle nicchie a maggior valore aggiunto per meccanica e meccatronica, robotica, farmaceutica e chimica, gomma e plastica, avionica e aerospaziale, cantieristica di lusso, oltre che arredamento, abbigliamento ed agroalimentare.

Abbiamo, è vero, un problema di scarsa produttività. Subiamo fortemente la crisi demografica e la carenza di personale qualificato (già adesso un grave problema, destinato in prospettiva a peggiorare). Viviamo le conseguenze negative dei costi elevati dell’energia e le difficoltà legate alla burocrazia inefficiente e agli alti carichi fiscali. Eppure, nonostante tutto, reggiamo.
Non si potrà fare affidamento a lungo sulle capacità del “genio italiano”, soprattutto di fronte all’evoluzione delle tecnologie. Ma abbiamo comunque buone carte in mano.
“Non è una débâcle, la nostra industria resta competitiva”, conferma Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo (Corriere Economia, 20 gennaio), parlando di “crisi ciclica e non strutturale” (a parte l’automotive), di incertezze geopolitiche, di limiti relativi alla difficile applicazione delle norme su Industria 5.0, di rinvio degli investimenti in attesa del calo dei tassi ma anche di fattori positivi legati alla trasformazione di gran parte dell’apparato industriale italiano, dopo la Grande Crisi del 2008/2009, in direzione di una migliore e maggiore produttività: “Le imprese italiane hanno una capacità di reazione superiore a quella dei tedeschi”.
C’è un altro punto di forza: la capacità di una parte rilevante delle nostre imprese a considerare la sostenibilità, ambientale e sociale, come asset fondamentali della propria dimensione competitiva (Pirelli ne è da tempo un caso esemplare) e non tanto come una scelta di marketing e di comunicazione, né come un furbo posizionamento green washing.

Sono stagioni difficili, infatti. In contesti geopolitici segnati da contrasti e conflitti. E con un distacco crescente di importanti attori internazionali (a cominciare dagli Usa, nella nuova strategia della presidenza di Donald Trump) rispetto alle indicazioni ESG e ai vincoli per contrastare i cambiamenti climatici. Si mette in discussione il Green Deal. E anche all’interno della Ue si riflette criticamente sulle dannose rigidità delle politiche ambientali seguite finora (burocratiche e ideologiche, dicono i critici, pensando soprattutto alle scelte sul primato dell’auto elettrica e alle multe per i motori endotermici). L’obiettivo è di arrivare rapidamente a nuove politiche ambientali ed sociali, fondate sul rispetto degli obiettivi Esg ma anche sulla “neutralità tecnologica” per raggiungerli. Un Green Deal di nuova generazione, che abbia al suo centro la difesa e il rilancio della centralità dell’industria europea, per fare fronte alla concorrenza che arriva dagli Usa, dalla Cina e, tra poco, dall’India.
Per tornare all’Italia, indicazioni quanto mai interessanti arrivano, come abbiamo detto, dall’annuale Rapporto preparato dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere “L’Italia in dieci selfie” (“Il Sole24Ore”, 14 gennaio): una documentazione accurata sui primati dell’Italia per l’economia circolare (il miglior tasso europeo di riciclo dei rifiuti speciali e urbani: 91,6%, contro una media Ue del 57,9%), per l’acciaio “verde” (la quota di quello prodotto con ciclo a forno elettrico è dell’86%, contro il 68% degli Usa), per la forza del maggior operatore al mondo nelle rinnovabili tra le utilities quotate (Enel, attraverso Enel Green Power) e per l’industria made in Italy in vetta per aziende agricole bio e per le capacità export dalla farmaceutica e dell’arredo.
Si compete bene in modo sostenibile, “l’Italia cresce quando fa bene l’Italia”, conferma Ermete Realacci, presidente di Symbola. E cioè “dà il meglio di sé quando incrocia i suoi cromosomi antichi con un modo tutto italiano di fare economia, che tiene insieme innovazione e tradizione, coesione sociale, nuove tecnologie e bellezza, capacità di parlare al mondo senza perdere legami con territori e comunità”.
Una sostenibilità produttiva, insomma. Sensibile ai temi ambientali ma anche sociali (al lavoro, al benessere diffuso). E attenta alla competitività e allo sviluppo. Una sostenibilità industriale. Un buon modo per crescere meglio.

(Foto Getty Images)

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