Un piano triennale per rilanciare l’industria, ma anche per difendere mercato e democrazia
Un piano di rilancio industriale con prospettiva triennale chiede giustamente il presidente di Confindustria Emanuele Orsini alle istituzioni, “al governo e a tutte le forze politiche” per “liberare il potenziale delle imprese italiane” e fare uscire il Paese da un’allarmante condizione di crisi. Serve infatti avere la piena consapevolezza che “senza industria non c’è crescita né coesione sociale”. E dunque avviare un ciclo di scelte e di investimenti pubblici sui temi dell’energia, dell’innovazione, della produttività, di una maggiore competitività dell’Italia e dell’Europa su mercati sempre più difficili e in scenari dominati dall’incertezza geopolitica che adesso ha un nuovo protagonista: gli Usa di Trump, proprio quegli Usa un tempo amici indissolubili e affidabili e adesso invece ruvidamente polemici verso la Ue e i principali paesi europei.
Gli industriali, aggiunge Orsini, sono pronti a fare la loro parte, e cioè a investire e migliorare la competitività delle loro imprese, rafforzando proprio quei settori in cui, da tempo, abbiamo dato prova della forza del made in Italy (meccanica e meccatronica, robotica, farmaceutica e chimica, avionica e aerospazio, cantieristica navale, gomma e plastica, grandi infrastrutture, oltre ad arredamento, abbigliamento e industria agro-alimentare). Investire e innovare, confermando ancora una volta, proprio in tempi difficili, creatività, intraprendenza, flessibilità, sguardo lungo sui mercati.
Ma l’impresa non è, ovviamente, onnipotente. Ha bisogno di un contesto positivo in cui muoversi. E cioè, appunto, di scelte e atti di governo, di medio periodo, che assicurino alle imprese condizioni favorevoli per il prezzo dell’energia, i carichi fiscali (l’Ires premiale decisa dal governo con la Finanziaria va bene, ma allargando platea e coperture), l’abbattimento della burocrazia, il miglior funzionamento del mercato del lavoro e della formazione: le imprese crescerebbero di più se trovassero la mano d’opera di cui hanno bisogno e dunque servono più laureati e diplomati e una migliore strategia di governo dell’immigrazione.
Questioni note da tempo, ma prive ancora di risposte politiche adeguate: “Industria 4.0”, la migliore scelta di politica industriale dell’ultimo decennio, leva essenziale del nostro dinamismo manifatturiero e della forza delle nostre esportazioni di alta qualità, è adesso quanto mai carente di risorse e prospettive. E “Industria 5.0” che dovrebbe favorire la transizione digitale delle imprese, è poco operativa, per colpa dei meccanismi normativi e burocratici che impediscono o rallentano l’accesso delle aziende.
In sintesi: c’è la crisi produttiva (ne abbiamo parlato, con dati e fatti, nel blog della scorsa settimana), ci sono comunque degli ottimi attori in campo, intraprendenti e armati di buona volontà e progetti concreti, ma peggiorano le condizioni perché si possano avviare il recupero e la ripresa.
La necessità della politica industriale ambiziosa e di lungo respiro non riguarda naturalmente solo l’Italia, ma investe soprattutto la Germania, in profonda crisi strutturale e, più in generale, l’intera Europa. La “guerra dei dazi” aperta dagli Usa di Trump aggrava il quadro. “L’Italia e la Germania corrono i rischi più alti”, avverte il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta al Forex (La Stampa, 16 febbraio): 1,5 punti in meno di crescita globale, anche se l’impatto peggiore sarebbe, nel medio periodo, proprio sugli Usa, -2%. Ed Emma Marcegaglia, ex presidente di Confindustria, che, da produttrice di acciaio, ha già sperimentato il peso dei dazi durante la prima presidenza Trump, teme i nuovi danni verso tutti e chiede proprio all’Europa una reazione forte. Che aiuti le imprese a stare sui mercati e, più in generale, rilanci i valori di un attore internazionale, la Ue, che ha saputo ben conciliare democrazia, mercato e welfare e cioè libertà, innovazione e inclusione sociale. Insiste il Governatore Panetta: serve “un patto europeo per la produttività” (Il Sole24Ore, 16 febbraio).
Ecco il punto cardine: serve un’Europa che, con sorprendente capacità politica, esca dall’angolo in cui la vorrebbero, per motivi diversi, gli Usa, la Russia e la Cina e affermi la forza e la validità di una cultura economica e politica fondata sui valori e sulle pratiche economiche di cui abbiamo appena detto e rivendichi con forza e orgoglio il proprio capitale sociale di democrazia competitiva.
Un’Europa progettuale, nonostante tutto. E un’Europa coraggiosa, cui guardano pure da altre parti del mondo: il Regno Unito, innanzitutto, ma anche parecchi paesi del Mediterraneo, dell’Africa e delle stesse Americhe (i recenti accordi commerciali Ue-Mercosur ne sono un buon esempio).
Per dirla con Mario Draghi, la Ue deve smetterla di imporre dazi a sé stessa, “barriere interne” che riducono l’innovazione e la produttività (la Repubblica, 16 febbraio). E fare concretamente buona politica. Come? Muoversi per un mercato unico, a cominciare da banche e finanza, proprio per rafforzare le imprese e i loro investimenti secondo la robusta attitudine all’innovazione nella strategica qualità della manifattura. E varare finalmente quel formidabile strumento degli eurobond, dei titoli di debito europei già considerati come essenziali da uno dei governanti più illuminati che l’Europa abbia avuto, Jacques Delors.
I mercati finanziari internazionali hanno già mostrato di considerare la Ue come debitore credibile. E le miopie dei paesi cosiddetti “frugali” rischiano di fare danni sconvolgenti non soltanto alle economie, ma alla stessa democrazia europea. La “frugalità” ideologica, in tempi carichi di incertezze e rischi, è tutt’altro che una virtù.
Eurobond, dunque. Per finanziare gli 800 miliardi di investimenti annui per un decennio per la transizione ambientale e digitale, come suggerito dal Piano per la competitività presentato da Mario Draghi su mandato della Commissione Ue, una visionaria e possibile via dello sviluppo per l’Europa. Per la difesa e l’esercito comune (colmando finalmente il deficit di un’Unione che ha la moneta ma non la spada). Ma anche per l’innovazione, le tecnologie, l’Intelligenza Artificiale, la formazione, la qualità dell’inclusione sociale, i progetti perché “Next Generation Ue” non sia solo una sigla degli investimenti post Covid ma una vera e propria politica per un avvenire migliore, in democrazia e sviluppo sostenibile, per i nostri figli e nipoti. “All’Europa serve un CERN per l’Intelligenza Artificiale”, suggerisce il premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi, testa pensante dei progetti di “supercalcolo” europeo (Il Sole24Ore, 16 febbraio).
Pensare in grande, insomma, proprio mentre hanno troppo corso i pensieri minimi dell’egoismo prepotente ma culturalmente e valoriarmente minuscolo. Pensare con ampiezza, di fronte ai sovranismi minacciosi e provare a essere “quel granello di sabbia sollevato dal vento che talvolta ha inceppato una macchina”, per riprendere un’intensa, poetica espressione di Norberto Bobbio, uno dei maggiori filosofi politici del Novecento. Pensare con generosità sociale, di fronte alle chiusure impaurite e socialmente sterili. Pensare europeo.
La nostra storia, nonostante le ombre covate al nostro stesso interno nei recessi di tenebra e d’orrore del Novecento, ce ne dà la forza.
Bisogna, dunque, imparare rapidamente a “Governare la fragilità”, come suggerisce un recente libro di Roberto Garofoli e Bernardo Giorgio Mattarella, edito da Mondadori, per parlare di “istituzioni, sicurezza nazionale e competitività”. E andare “oltre la fragilità”, come per esempio, proprio nella stagione terribile della pandemia da Covid, l’Europa ha saputo fare, per scienza, cultura della salute e rispetto dei diritti delle persone. Una buona Europa.
(Foto Getty Images)


Un piano di rilancio industriale con prospettiva triennale chiede giustamente il presidente di Confindustria Emanuele Orsini alle istituzioni, “al governo e a tutte le forze politiche” per “liberare il potenziale delle imprese italiane” e fare uscire il Paese da un’allarmante condizione di crisi. Serve infatti avere la piena consapevolezza che “senza industria non c’è crescita né coesione sociale”. E dunque avviare un ciclo di scelte e di investimenti pubblici sui temi dell’energia, dell’innovazione, della produttività, di una maggiore competitività dell’Italia e dell’Europa su mercati sempre più difficili e in scenari dominati dall’incertezza geopolitica che adesso ha un nuovo protagonista: gli Usa di Trump, proprio quegli Usa un tempo amici indissolubili e affidabili e adesso invece ruvidamente polemici verso la Ue e i principali paesi europei.
Gli industriali, aggiunge Orsini, sono pronti a fare la loro parte, e cioè a investire e migliorare la competitività delle loro imprese, rafforzando proprio quei settori in cui, da tempo, abbiamo dato prova della forza del made in Italy (meccanica e meccatronica, robotica, farmaceutica e chimica, avionica e aerospazio, cantieristica navale, gomma e plastica, grandi infrastrutture, oltre ad arredamento, abbigliamento e industria agro-alimentare). Investire e innovare, confermando ancora una volta, proprio in tempi difficili, creatività, intraprendenza, flessibilità, sguardo lungo sui mercati.
Ma l’impresa non è, ovviamente, onnipotente. Ha bisogno di un contesto positivo in cui muoversi. E cioè, appunto, di scelte e atti di governo, di medio periodo, che assicurino alle imprese condizioni favorevoli per il prezzo dell’energia, i carichi fiscali (l’Ires premiale decisa dal governo con la Finanziaria va bene, ma allargando platea e coperture), l’abbattimento della burocrazia, il miglior funzionamento del mercato del lavoro e della formazione: le imprese crescerebbero di più se trovassero la mano d’opera di cui hanno bisogno e dunque servono più laureati e diplomati e una migliore strategia di governo dell’immigrazione.
Questioni note da tempo, ma prive ancora di risposte politiche adeguate: “Industria 4.0”, la migliore scelta di politica industriale dell’ultimo decennio, leva essenziale del nostro dinamismo manifatturiero e della forza delle nostre esportazioni di alta qualità, è adesso quanto mai carente di risorse e prospettive. E “Industria 5.0” che dovrebbe favorire la transizione digitale delle imprese, è poco operativa, per colpa dei meccanismi normativi e burocratici che impediscono o rallentano l’accesso delle aziende.
In sintesi: c’è la crisi produttiva (ne abbiamo parlato, con dati e fatti, nel blog della scorsa settimana), ci sono comunque degli ottimi attori in campo, intraprendenti e armati di buona volontà e progetti concreti, ma peggiorano le condizioni perché si possano avviare il recupero e la ripresa.
La necessità della politica industriale ambiziosa e di lungo respiro non riguarda naturalmente solo l’Italia, ma investe soprattutto la Germania, in profonda crisi strutturale e, più in generale, l’intera Europa. La “guerra dei dazi” aperta dagli Usa di Trump aggrava il quadro. “L’Italia e la Germania corrono i rischi più alti”, avverte il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta al Forex (La Stampa, 16 febbraio): 1,5 punti in meno di crescita globale, anche se l’impatto peggiore sarebbe, nel medio periodo, proprio sugli Usa, -2%. Ed Emma Marcegaglia, ex presidente di Confindustria, che, da produttrice di acciaio, ha già sperimentato il peso dei dazi durante la prima presidenza Trump, teme i nuovi danni verso tutti e chiede proprio all’Europa una reazione forte. Che aiuti le imprese a stare sui mercati e, più in generale, rilanci i valori di un attore internazionale, la Ue, che ha saputo ben conciliare democrazia, mercato e welfare e cioè libertà, innovazione e inclusione sociale. Insiste il Governatore Panetta: serve “un patto europeo per la produttività” (Il Sole24Ore, 16 febbraio).
Ecco il punto cardine: serve un’Europa che, con sorprendente capacità politica, esca dall’angolo in cui la vorrebbero, per motivi diversi, gli Usa, la Russia e la Cina e affermi la forza e la validità di una cultura economica e politica fondata sui valori e sulle pratiche economiche di cui abbiamo appena detto e rivendichi con forza e orgoglio il proprio capitale sociale di democrazia competitiva.
Un’Europa progettuale, nonostante tutto. E un’Europa coraggiosa, cui guardano pure da altre parti del mondo: il Regno Unito, innanzitutto, ma anche parecchi paesi del Mediterraneo, dell’Africa e delle stesse Americhe (i recenti accordi commerciali Ue-Mercosur ne sono un buon esempio).
Per dirla con Mario Draghi, la Ue deve smetterla di imporre dazi a sé stessa, “barriere interne” che riducono l’innovazione e la produttività (la Repubblica, 16 febbraio). E fare concretamente buona politica. Come? Muoversi per un mercato unico, a cominciare da banche e finanza, proprio per rafforzare le imprese e i loro investimenti secondo la robusta attitudine all’innovazione nella strategica qualità della manifattura. E varare finalmente quel formidabile strumento degli eurobond, dei titoli di debito europei già considerati come essenziali da uno dei governanti più illuminati che l’Europa abbia avuto, Jacques Delors.
I mercati finanziari internazionali hanno già mostrato di considerare la Ue come debitore credibile. E le miopie dei paesi cosiddetti “frugali” rischiano di fare danni sconvolgenti non soltanto alle economie, ma alla stessa democrazia europea. La “frugalità” ideologica, in tempi carichi di incertezze e rischi, è tutt’altro che una virtù.
Eurobond, dunque. Per finanziare gli 800 miliardi di investimenti annui per un decennio per la transizione ambientale e digitale, come suggerito dal Piano per la competitività presentato da Mario Draghi su mandato della Commissione Ue, una visionaria e possibile via dello sviluppo per l’Europa. Per la difesa e l’esercito comune (colmando finalmente il deficit di un’Unione che ha la moneta ma non la spada). Ma anche per l’innovazione, le tecnologie, l’Intelligenza Artificiale, la formazione, la qualità dell’inclusione sociale, i progetti perché “Next Generation Ue” non sia solo una sigla degli investimenti post Covid ma una vera e propria politica per un avvenire migliore, in democrazia e sviluppo sostenibile, per i nostri figli e nipoti. “All’Europa serve un CERN per l’Intelligenza Artificiale”, suggerisce il premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi, testa pensante dei progetti di “supercalcolo” europeo (Il Sole24Ore, 16 febbraio).
Pensare in grande, insomma, proprio mentre hanno troppo corso i pensieri minimi dell’egoismo prepotente ma culturalmente e valoriarmente minuscolo. Pensare con ampiezza, di fronte ai sovranismi minacciosi e provare a essere “quel granello di sabbia sollevato dal vento che talvolta ha inceppato una macchina”, per riprendere un’intensa, poetica espressione di Norberto Bobbio, uno dei maggiori filosofi politici del Novecento. Pensare con generosità sociale, di fronte alle chiusure impaurite e socialmente sterili. Pensare europeo.
La nostra storia, nonostante le ombre covate al nostro stesso interno nei recessi di tenebra e d’orrore del Novecento, ce ne dà la forza.
Bisogna, dunque, imparare rapidamente a “Governare la fragilità”, come suggerisce un recente libro di Roberto Garofoli e Bernardo Giorgio Mattarella, edito da Mondadori, per parlare di “istituzioni, sicurezza nazionale e competitività”. E andare “oltre la fragilità”, come per esempio, proprio nella stagione terribile della pandemia da Covid, l’Europa ha saputo fare, per scienza, cultura della salute e rispetto dei diritti delle persone. Una buona Europa.
(Foto Getty Images)