Ragionare sul Nord e mettere al centro l’industria: cosa dicono umori e speranze del “partito del Pil”
“Nord Nord”, scrive Marco Belpoliti, in un libro appena pubblicato da Einaudi, per raccontare un mondo che non è, essenzialmente, una localizzazione geografica (“… si sottrae a ogni nostro tentativo di raggiungerlo… il Nord che adesso mi indica la bussola è relativo, non è assoluto”) ma ha, soprattutto, una dimensione culturale, economica e sociale. In Italia, mostra una specifica connotazione sia geologica, tra le Alpi e le valli che ne discendono, che naturalistica (certi animali, certi alberi, anche se “la linea della palma” individuata da Leonardo Sciascia, con criteri botanici e soprattutto antropologici, l’ha raggiunto). E si colloca tra la Brianza operosa, Milano città aperta, Pavia e Bergamo e la pianura attraversata dal corso del Po e dei fiumi affluenti, compresa “quel gran pezzo dell’Emilia, terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe” ben descritta da Edmondo Berselli (in un libro così brillantemente intitolato e pubblicato da Mondadori nel 2004, da leggere e rileggere).
Un Nord che vive di economia produttiva e di cultura. E risente ancora, tra malinconia, lezioni civili e capacità di progetto, delle tracce di grandi intellettuali come Carlo Emilio Gadda, Alberto Arbasino e Mario Dondero, Ugo Mulas, Enzo Mari, Arnaldo Pomodoro e Gabriele Basilico, gli artisti del Bar Jamaica affascinati negli anni Sessanta da Giancarlo Fusco e due siciliani “gran lombardi”, alla Vittorini, come Ferdinando Scianna e Vincenzo Consolo. Un Nord, insomma, molto europeo e altrettanto mediterraneo.
Ecco, dedicare tempo alle pagine sapide di Belpoliti (e, appunto, a quelle ironiche e lungimiranti di Berselli, troppo presto e dolorosamente scomparso) significa anche trovare delle chiavi originali di interpretazione di tensioni, passioni e speranze che segnano la parte più economicamente dinamica dell’Italia e fanno, nonostante tutto, da cardine per ogni processo di sviluppo sostenibile, economico e sociale, dell’intero sistema Paese. Perché il Nord è, tra l’altro, intraprendenza, industria, lavoro, cambiamento, ricerca del benessere, voglia di novità e però pure capacità di inclusione sociale, spirito civile, mito positivo del progresso, sofisticata ricerca culturale, umanistica e scientifica. Senso della storia, dunque. E inclinazione all’innovazione nel senso più ampio del termine. Gusto per la bellezza. E passione per le nuove tecnologie. Il Nord di Leonardo da Vinci, Leon Battista Alberti e Galileo. Di Giulio Natta e dei futuristi. Dei sindaci riformisti e degli imprenditori e manager (Olivetti, Pirelli, Agnelli, Falck, Mattei, Borghi, Luraghi etc.) che hanno scritto le pagine migliori della “civiltà delle macchine” in cui ancora oggi affondano le radici della nostra competitività e dunque del nostro sviluppo economico e sociale.
Oltre la memoria, c’è, in tempi così difficili e controversi, anche un disagio con cui fare i conti. Il disagio del cosiddetto “partito del Pil”, sui cui ha attirato ancora una volta l’attenzione Dario Di Vico (Il Foglio, 8 marzo). Si teme l’effetto dei dazi minacciati dal presidente Usa Donald Trump e si invita discretamente la politica europea a fare i conti per bene, dal nostro punto di vista, non solo sulla bilancia commerciale, ma soprattutto su quella valutaria e finanziaria, ricordando a Washington quali siano i vantaggi americani per avere nel dollaro la principale valuta degli scambi, per l’attrazione dei capitali europei verso Wall Street e per la ricaduta positiva di tutte le transazioni digitali.
Ci si lamenta, inoltre, qui al Nord, della crisi industriale in corso, strettamente legata alla decrescita dell’economia tedesca e ai prezzi che proprio i paesi europei pagano alle tensioni geopolitiche alimentate da Usa, Cina e Russia. E si chiede una vera e propria lungimirante politica industriale della Ue, fatta da mercato unico, investimenti per l’innovazione, abbattimento dei costi dell’energia e tagli intelligenti agli eccessi regolatori e burocratici. Anche la politica della sicurezza e della difesa in chiave Ue va iscritta in questo contesto: investimenti comuni, una strategia condivisa, anche superando rapidamente ed efficacemente l’obsoleta e negativa politica dell’unanimità obbligata e dei ricatti dei “veti” di singoli paesi.
Il “partito del Pil” e soprattutto la Confindustria presieduta da Emanuele Orsini hanno fatto un’ampia apertura di credito al governo di Giorgia Meloni. Adesso, oltre a una risposta Ue sui dazi, sollecitano scelte adeguate alla ripresa, al di là delle dichiarazioni di buone intenzioni: un piano triennale di investimenti e misure fiscali, per esempio. Guardano con allarme quello che “La Stampa” definisce “Fallimento 5.0” (11 marzo) e cioè la farraginosità per l’ottenimento degli incentivi per la transizione green e digitale e lo spostamento dei fondi dedicati ad altre destinazioni. Insistono sull’Ires premiale per chi investe. E sollecitano misure per i settori più in difficoltà, dall’automotive (senza illudersi di avere risposte dal passaggio alle produzioni di guerra) all’abbigliamento.
Chi conosce bene i territori industriali e condivide umori, progetti e preoccupazioni delle donne e degli uomini d’impresa sa che proprio in questi mesi sta maturando, accanto ai timori per il perdurare della crisi, una certa voglia di ripresa e di rilancio, un robusto orgoglio europeo e dunque anche una crescente richiesta ai poteri pubblici (europei, nazionali, ma anche degli enti locali più sensibili, a cominciare dai comuni come Milano, Bergamo e Brescia e dalla Regione Lombardia) di mettere al centro dell’attenzione i temi dell’industria. Non per sollecitare protezioni né tutele corporative e nazionaliste. Ma per non disperdere il patrimonio di competitività e produttività che negli anni, grazie a investimenti e cura per innovazione, qualità e sostenibilità, gran parte delle imprese del Nord hanno accumulato. Anche nell’interesse del Paese.
Mettere l’industria al centro, si sente dire dagli industriali di Trento nelle cerimonie per gli ottant’anni della Confindustria trentina. Rafforzare le filiere industriali, si sostiene in Assolombarda. Dare alle imprese gli strumenti per rilanciare produttività e competitività, si insiste in una Torino che, dopo la crisi dell’auto, cerca di rafforzare i nuovi settori, a cominciare dall’industria aerospaziale.
Attenzione al made in Italy, dunque, ribadiscono in Emilia-Romagna e nel Nord Est. Pensando non tanto al pittoresco artigianale o al “tipico”. Quanto alle tecnologie più avanzate, all’impasto originale di capacità produttive industriali e servizi high tech per l’impresa. Meccanica e meccatronica. Robotica. Chimica, gomma e farmaceutica. Space Economy e cantieristica navale. Con tutte le tecnologie collegate.
Una scelta produttiva. Ma anche un’idea forte della presenza dell’Italia nel mondo. Sapendo bene che chi non ha un’industria competitiva non conta sulla scena degli equilibri mondiali. E dunque non è protagonista del suo futuro.
L’orizzonte industriale si inserisce nel contesto della difesa dell’Europa. E della democrazia. Pensando non solo a una piazza con la bandiere Ue, ma a una fabbrica, un mercato, un terminale finanziario, un’aula universitaria o di Its, un istituto di ricerca. Alla storia di un Nord in cui, appunto anche attorno alla fabbrica, sono maturate le idee e le realizzazioni sulla cittadinanza, la partecipazione, il lavoro, il welfare. E in cui sono maturate riforme per continuare a coniugare libertà e impresa, diritti civili ed esigenze di equilibrio sociale. Le idee che innervano l’Europa democratica. E cioè la nostra vita civile. E, speriamo, il nostro futuro.
In un reticolo di relazioni, in un sistema di connessioni. E di infrastrutture. Mediterranee ed europee, appunto. Autostrade, porti, aeroporti, poli logistici, centri della conoscenza e della formazione. E Leonardo, il grande centro di supercalcolo che, da Bologna, può fare da riferimento per tutte le aree di maggiore industrializzazione del Paese, rendendo disponibili le opportunità di utilizzo dei dati necessari all’Intelligenza Artificiale.
Potremmo pur chiamare tutto ciò Nord Nord. O in altri modi. Sapendo comunque che la forza dell’Europa sta nelle relazioni Nord-Sud, così come Est-Ovest. In nuove mappe delle relazioni politiche e commerciali, In cui l’Europa, dialogante, deve saper rivendicare i suoi primati. Economici, ma anche e soprattutto culturali e civili.
(foto Getty Images)


“Nord Nord”, scrive Marco Belpoliti, in un libro appena pubblicato da Einaudi, per raccontare un mondo che non è, essenzialmente, una localizzazione geografica (“… si sottrae a ogni nostro tentativo di raggiungerlo… il Nord che adesso mi indica la bussola è relativo, non è assoluto”) ma ha, soprattutto, una dimensione culturale, economica e sociale. In Italia, mostra una specifica connotazione sia geologica, tra le Alpi e le valli che ne discendono, che naturalistica (certi animali, certi alberi, anche se “la linea della palma” individuata da Leonardo Sciascia, con criteri botanici e soprattutto antropologici, l’ha raggiunto). E si colloca tra la Brianza operosa, Milano città aperta, Pavia e Bergamo e la pianura attraversata dal corso del Po e dei fiumi affluenti, compresa “quel gran pezzo dell’Emilia, terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe” ben descritta da Edmondo Berselli (in un libro così brillantemente intitolato e pubblicato da Mondadori nel 2004, da leggere e rileggere).
Un Nord che vive di economia produttiva e di cultura. E risente ancora, tra malinconia, lezioni civili e capacità di progetto, delle tracce di grandi intellettuali come Carlo Emilio Gadda, Alberto Arbasino e Mario Dondero, Ugo Mulas, Enzo Mari, Arnaldo Pomodoro e Gabriele Basilico, gli artisti del Bar Jamaica affascinati negli anni Sessanta da Giancarlo Fusco e due siciliani “gran lombardi”, alla Vittorini, come Ferdinando Scianna e Vincenzo Consolo. Un Nord, insomma, molto europeo e altrettanto mediterraneo.
Ecco, dedicare tempo alle pagine sapide di Belpoliti (e, appunto, a quelle ironiche e lungimiranti di Berselli, troppo presto e dolorosamente scomparso) significa anche trovare delle chiavi originali di interpretazione di tensioni, passioni e speranze che segnano la parte più economicamente dinamica dell’Italia e fanno, nonostante tutto, da cardine per ogni processo di sviluppo sostenibile, economico e sociale, dell’intero sistema Paese. Perché il Nord è, tra l’altro, intraprendenza, industria, lavoro, cambiamento, ricerca del benessere, voglia di novità e però pure capacità di inclusione sociale, spirito civile, mito positivo del progresso, sofisticata ricerca culturale, umanistica e scientifica. Senso della storia, dunque. E inclinazione all’innovazione nel senso più ampio del termine. Gusto per la bellezza. E passione per le nuove tecnologie. Il Nord di Leonardo da Vinci, Leon Battista Alberti e Galileo. Di Giulio Natta e dei futuristi. Dei sindaci riformisti e degli imprenditori e manager (Olivetti, Pirelli, Agnelli, Falck, Mattei, Borghi, Luraghi etc.) che hanno scritto le pagine migliori della “civiltà delle macchine” in cui ancora oggi affondano le radici della nostra competitività e dunque del nostro sviluppo economico e sociale.
Oltre la memoria, c’è, in tempi così difficili e controversi, anche un disagio con cui fare i conti. Il disagio del cosiddetto “partito del Pil”, sui cui ha attirato ancora una volta l’attenzione Dario Di Vico (Il Foglio, 8 marzo). Si teme l’effetto dei dazi minacciati dal presidente Usa Donald Trump e si invita discretamente la politica europea a fare i conti per bene, dal nostro punto di vista, non solo sulla bilancia commerciale, ma soprattutto su quella valutaria e finanziaria, ricordando a Washington quali siano i vantaggi americani per avere nel dollaro la principale valuta degli scambi, per l’attrazione dei capitali europei verso Wall Street e per la ricaduta positiva di tutte le transazioni digitali.
Ci si lamenta, inoltre, qui al Nord, della crisi industriale in corso, strettamente legata alla decrescita dell’economia tedesca e ai prezzi che proprio i paesi europei pagano alle tensioni geopolitiche alimentate da Usa, Cina e Russia. E si chiede una vera e propria lungimirante politica industriale della Ue, fatta da mercato unico, investimenti per l’innovazione, abbattimento dei costi dell’energia e tagli intelligenti agli eccessi regolatori e burocratici. Anche la politica della sicurezza e della difesa in chiave Ue va iscritta in questo contesto: investimenti comuni, una strategia condivisa, anche superando rapidamente ed efficacemente l’obsoleta e negativa politica dell’unanimità obbligata e dei ricatti dei “veti” di singoli paesi.
Il “partito del Pil” e soprattutto la Confindustria presieduta da Emanuele Orsini hanno fatto un’ampia apertura di credito al governo di Giorgia Meloni. Adesso, oltre a una risposta Ue sui dazi, sollecitano scelte adeguate alla ripresa, al di là delle dichiarazioni di buone intenzioni: un piano triennale di investimenti e misure fiscali, per esempio. Guardano con allarme quello che “La Stampa” definisce “Fallimento 5.0” (11 marzo) e cioè la farraginosità per l’ottenimento degli incentivi per la transizione green e digitale e lo spostamento dei fondi dedicati ad altre destinazioni. Insistono sull’Ires premiale per chi investe. E sollecitano misure per i settori più in difficoltà, dall’automotive (senza illudersi di avere risposte dal passaggio alle produzioni di guerra) all’abbigliamento.
Chi conosce bene i territori industriali e condivide umori, progetti e preoccupazioni delle donne e degli uomini d’impresa sa che proprio in questi mesi sta maturando, accanto ai timori per il perdurare della crisi, una certa voglia di ripresa e di rilancio, un robusto orgoglio europeo e dunque anche una crescente richiesta ai poteri pubblici (europei, nazionali, ma anche degli enti locali più sensibili, a cominciare dai comuni come Milano, Bergamo e Brescia e dalla Regione Lombardia) di mettere al centro dell’attenzione i temi dell’industria. Non per sollecitare protezioni né tutele corporative e nazionaliste. Ma per non disperdere il patrimonio di competitività e produttività che negli anni, grazie a investimenti e cura per innovazione, qualità e sostenibilità, gran parte delle imprese del Nord hanno accumulato. Anche nell’interesse del Paese.
Mettere l’industria al centro, si sente dire dagli industriali di Trento nelle cerimonie per gli ottant’anni della Confindustria trentina. Rafforzare le filiere industriali, si sostiene in Assolombarda. Dare alle imprese gli strumenti per rilanciare produttività e competitività, si insiste in una Torino che, dopo la crisi dell’auto, cerca di rafforzare i nuovi settori, a cominciare dall’industria aerospaziale.
Attenzione al made in Italy, dunque, ribadiscono in Emilia-Romagna e nel Nord Est. Pensando non tanto al pittoresco artigianale o al “tipico”. Quanto alle tecnologie più avanzate, all’impasto originale di capacità produttive industriali e servizi high tech per l’impresa. Meccanica e meccatronica. Robotica. Chimica, gomma e farmaceutica. Space Economy e cantieristica navale. Con tutte le tecnologie collegate.
Una scelta produttiva. Ma anche un’idea forte della presenza dell’Italia nel mondo. Sapendo bene che chi non ha un’industria competitiva non conta sulla scena degli equilibri mondiali. E dunque non è protagonista del suo futuro.
L’orizzonte industriale si inserisce nel contesto della difesa dell’Europa. E della democrazia. Pensando non solo a una piazza con la bandiere Ue, ma a una fabbrica, un mercato, un terminale finanziario, un’aula universitaria o di Its, un istituto di ricerca. Alla storia di un Nord in cui, appunto anche attorno alla fabbrica, sono maturate le idee e le realizzazioni sulla cittadinanza, la partecipazione, il lavoro, il welfare. E in cui sono maturate riforme per continuare a coniugare libertà e impresa, diritti civili ed esigenze di equilibrio sociale. Le idee che innervano l’Europa democratica. E cioè la nostra vita civile. E, speriamo, il nostro futuro.
In un reticolo di relazioni, in un sistema di connessioni. E di infrastrutture. Mediterranee ed europee, appunto. Autostrade, porti, aeroporti, poli logistici, centri della conoscenza e della formazione. E Leonardo, il grande centro di supercalcolo che, da Bologna, può fare da riferimento per tutte le aree di maggiore industrializzazione del Paese, rendendo disponibili le opportunità di utilizzo dei dati necessari all’Intelligenza Artificiale.
Potremmo pur chiamare tutto ciò Nord Nord. O in altri modi. Sapendo comunque che la forza dell’Europa sta nelle relazioni Nord-Sud, così come Est-Ovest. In nuove mappe delle relazioni politiche e commerciali, In cui l’Europa, dialogante, deve saper rivendicare i suoi primati. Economici, ma anche e soprattutto culturali e civili.
(foto Getty Images)