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Nella crescita dell’ignoranza e dell’ostilità alla scienza soffre anche la competitività dell’industria italiana

“Com’è la notte?”

“Chiara”.

Sono le ultime battute della “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht. Lo scienziato ha appena subìto le imposizioni dei dottori della Chiesa, abiurando le sue scoperte sulla centralità del Sole e sul movimento della Terra come pianeta. E se ne sta mesto in un angolo del suo studiolo. Eppure, ancorché umiliato, non si sottomette al silenzio e all’ignoranza. E al discepolo che lo interroga, parla di “notte chiara” e dunque ribadisce la forza della scienza, la bellezza della ricerca, la necessità della conoscenza e l’importanza di una verità da verificare, discutere, mettere comunque alla prova. C’è sempre e comunque un cielo, da continuare a esplorare.

Le parole del Galileo di Brecht, e la sua indomita passione per la conoscenza vengono in mente leggendo le cronache sull’ultima indagine Piaac dell’Ocse sull’istruzione e le competenze degli adulti (dai 16 ai 65 anni) in 31 paesi dell’Organizzazione (La Stampa e Il Sole24Ore, 11 dicembre), da cui emerge purtroppo che l’Italia è agli ultimi posti in classifica per capacità di comprensione del testo (“literacy”), capacità di calcolo (“numeracy”) e capacità di risolvere problemi appena complessi. Ai primi posti della classifica ci sono Giappone, Svezia, Finlandia, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Danimarca.

La situazione italiana, rileva sempre l’Ocse, è peggiorata rispetto a dieci anni fa. E le carenze cognitive sono particolarmente gravi per le persone, tra i 54 e i 65 anni. Sono pesanti anche i divari territoriali: il Nord e il Centro sono in linea con la media Ocse, il Sud invece arranca.

“Analfabeti d’Italia”, sintetizza brutalmente il titolo de “La Stampa”. E Viola Ardone, insegnante e scrittrice di successo, aggiunge: “Non capiamo più ciò che leggiamo perché trionfa il ‘parla come mangi’”, la sciatteria di un linguaggio quotidiano impoverito e involgarito e la subcultura del “semplice”, scartando tutto ciò che sembra “complesso”. “Analfabeti funzionali”, commenta Paolo Di Paolo (la Repubblica, 11 dicembre), aggiungendo che “un cittadino che fatica a leggere un testo di media complessità… non gode appieno dei propri diritti e forse nemmeno lo sa. Rischia di restare e spesso resta al margine della partecipazione alla vita democratica. Si espone, quasi senza difese a chi intende schiacciarlo, truffarlo, blandirlo per renderlo un consumatore inerte e apatico. Finisce per essere inghiottito dalla propaganda più tossica, commerciale quanto politica”.

Un disastro politico e sociale, insomma. Ma anche una condizione negativa dal punto di vista dell’economia: a un basso livello di conoscenza e competenze corrispondono salari bassi, lavoro povero, scarsa consapevolezza dei temi finanziari (la capacità di contrarre responsabilmente un mutuo o un prestito e di decidere sul proprio risparmio), inadeguatezza nel fare fronte alle pratiche burocratiche e fiscali o nel capire le conseguenze di scelte politiche e di governo su tanti aspetti della propria vita di cittadino, lavoratore, consumatore.

Nulla di nuovo, purtroppo. Già dieci anni fa Tullio De Mauro, grande linguista, ammoniva sul fenomeno della dealfabetizzazione degli adulti, senza che nessuno, a livello politico e di governo, avesse voglia di affrontare il problema. Il Rapporto Censis del 2021 parlava di “regressione culturale”. E sempre il Censis, nel rapporto 2025, pochi giorni fa, ha documentato come molti italiani sappiano pochissimo di Manzoni e Mazzini, siano “intrappolati nella medietà” (dunque anche nell’ignoranza) e digitalmente quasi analfabeti.

Le radici di questa condizione sono note: il degrado e il declino della scuola, la quasi totale scomparsa delle tradizionali “agenzie educative” (negli anni Sessanta e Settanta lo erano anche i partiti, i sindacati, le parrocchie, i circoli e le associazioni sociali), la tendenza a non leggere (solo un italiano su due prende in mano un libro almeno una volta all’anno), la crescente abitudine a informarsi sbrigativamente e dunque malamente solo su social e Tv (le vendite dei quotidiani sono in calo costante e il governo non mostra alcun interesse a sostenere i processi di ammodernamento tecnologico e di miglioramento qualitativo dell’editoria giornalistica).

È la stagione dell’ignoranza, “l’ignoranza di quelli che sanno tutto”, chiosa ironicamente Aldo Grasso sul Corriere della Sera (15 dicembre). Un’ignoranza, per giunta, esibita, rivendicata, spavaldamente contrapposta a chi mette in campo le proprie competenze e conoscenze (resta famoso il protervo “Questo lo dice lei…” contrapposto da una parlamentare dei 5Stelle a Pier Carlo Padoan, uno dei maggiori economisti internazionali, che ragionava di sviluppo economico e misure di governo sulla base di analisi scientifiche e dati).

Ne soffre il discorso pubblico, sempre più impoverito e banalizzato. Ne risente negativamente la qualità della stessa democrazia, fondata com’è sulla capacità dei cittadini di poter esprimere un giudizio critico ben informato, di far valere un’opinione fondata non sugli istinti, le paure, le distorsioni della propaganda, ma sulla consapevolezza dei problemi e la discussione delle possibili soluzioni.

La democrazia liberale, insomma, non può non avere un pilastro nella buona scuola, nella diffusione della conoscenza, indispensabile sia alla cittadinanza consapevole e alla partecipazione responsabile, sia alla ricerca scientifica e al progresso. Qualunque regime autoritario, invece, tiene in sospetto, sino all’aperta ostilità, la formazione di qualità, l’informazione autonoma, il pensiero critico, la stessa libertà della ricerca scientifica. La lezione di Isaiah Berlin, Jurgen Habermas, Karl Popper e Norberto Bobbio è molto chiara e ancora di grande attualità. L’Europa migliore in cui crediamo ne reca l’impronta essenziale.

C’è un secondo aspetto su cui vale la pena insistere. E cioè quello sulle conseguenze negative dell’ignoranza crescente e della subcultura antiscientifica sulla competitività dell’Italia.

Nella stagione del primato della “economia della conoscenza”, infatti, proprio la gestione della transizione ambientale e digitale e l’utilizzo produttivo dell’Intelligenza Artificiale chiedono un insieme di competenze multidisciplinari sempre più sofisticate, una formazione di lungo periodo ben al di là dei tradizionali percorsi scolastici e universitari.

L’attitudine alla creatività, con cui storicamente abbiamo supplito alle carenze formative, non è più sufficiente. Una solida cultura d’impresa all’altezza delle sfide competitive internazionali, ha bisogno di essere “politecnica”, aperta, dinamica, in continua evoluzione. La produttività, soprattutto nei settori della manifattura d’avanguardia e dei servizi high tech, può essere garantita solo da elevati livelli culturali, non solo tecnici, ma anche umanistici in senso lato. La condizione italiana, con un basso numero di laureati e con quote elevate di “analfabetismo funzionale” di cui abbiamo appena parlato, è dunque particolarmente preoccupante.

C’è ancora una considerazione da fare. Anche l’attitudine orgogliosa al “saper fare”, così preziosa per gli imprenditori, ha bisogno di essere accompagnata dall’impegno a “far sapere”, a costruire un nuovo e migliore racconto dell’intraprendenza, dell’industria e del lavoro.

Investire sulla formazione e sulla conoscenza, dunque. È l’esigenza fondamentale cui dare risposte. Le risorse del Pnnr avrebbero dovuto essere utilizzate proprio in questa direzione. Vedremo, solo al termine del percorso di spesa dei fondi, quanti investimenti su scuola, università, formazione, conoscenza, transizione digitale e Intelligenza Artificiale, innovazione sono stati fatti e con che risultati. Di certo, oggi resta soprattutto la preoccupazione per l’ignoranza crescente, la scarsa produttività del sistema Italia nel suo complesso, la crisi di competitività rispetto ai concorrenti internazionali.

E la notte della conoscenza, della scienza e dello sviluppo rischia purtroppo di non essere più “chiara”.

(foto Getty Images)

“Com’è la notte?”

“Chiara”.

Sono le ultime battute della “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht. Lo scienziato ha appena subìto le imposizioni dei dottori della Chiesa, abiurando le sue scoperte sulla centralità del Sole e sul movimento della Terra come pianeta. E se ne sta mesto in un angolo del suo studiolo. Eppure, ancorché umiliato, non si sottomette al silenzio e all’ignoranza. E al discepolo che lo interroga, parla di “notte chiara” e dunque ribadisce la forza della scienza, la bellezza della ricerca, la necessità della conoscenza e l’importanza di una verità da verificare, discutere, mettere comunque alla prova. C’è sempre e comunque un cielo, da continuare a esplorare.

Le parole del Galileo di Brecht, e la sua indomita passione per la conoscenza vengono in mente leggendo le cronache sull’ultima indagine Piaac dell’Ocse sull’istruzione e le competenze degli adulti (dai 16 ai 65 anni) in 31 paesi dell’Organizzazione (La Stampa e Il Sole24Ore, 11 dicembre), da cui emerge purtroppo che l’Italia è agli ultimi posti in classifica per capacità di comprensione del testo (“literacy”), capacità di calcolo (“numeracy”) e capacità di risolvere problemi appena complessi. Ai primi posti della classifica ci sono Giappone, Svezia, Finlandia, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Danimarca.

La situazione italiana, rileva sempre l’Ocse, è peggiorata rispetto a dieci anni fa. E le carenze cognitive sono particolarmente gravi per le persone, tra i 54 e i 65 anni. Sono pesanti anche i divari territoriali: il Nord e il Centro sono in linea con la media Ocse, il Sud invece arranca.

“Analfabeti d’Italia”, sintetizza brutalmente il titolo de “La Stampa”. E Viola Ardone, insegnante e scrittrice di successo, aggiunge: “Non capiamo più ciò che leggiamo perché trionfa il ‘parla come mangi’”, la sciatteria di un linguaggio quotidiano impoverito e involgarito e la subcultura del “semplice”, scartando tutto ciò che sembra “complesso”. “Analfabeti funzionali”, commenta Paolo Di Paolo (la Repubblica, 11 dicembre), aggiungendo che “un cittadino che fatica a leggere un testo di media complessità… non gode appieno dei propri diritti e forse nemmeno lo sa. Rischia di restare e spesso resta al margine della partecipazione alla vita democratica. Si espone, quasi senza difese a chi intende schiacciarlo, truffarlo, blandirlo per renderlo un consumatore inerte e apatico. Finisce per essere inghiottito dalla propaganda più tossica, commerciale quanto politica”.

Un disastro politico e sociale, insomma. Ma anche una condizione negativa dal punto di vista dell’economia: a un basso livello di conoscenza e competenze corrispondono salari bassi, lavoro povero, scarsa consapevolezza dei temi finanziari (la capacità di contrarre responsabilmente un mutuo o un prestito e di decidere sul proprio risparmio), inadeguatezza nel fare fronte alle pratiche burocratiche e fiscali o nel capire le conseguenze di scelte politiche e di governo su tanti aspetti della propria vita di cittadino, lavoratore, consumatore.

Nulla di nuovo, purtroppo. Già dieci anni fa Tullio De Mauro, grande linguista, ammoniva sul fenomeno della dealfabetizzazione degli adulti, senza che nessuno, a livello politico e di governo, avesse voglia di affrontare il problema. Il Rapporto Censis del 2021 parlava di “regressione culturale”. E sempre il Censis, nel rapporto 2025, pochi giorni fa, ha documentato come molti italiani sappiano pochissimo di Manzoni e Mazzini, siano “intrappolati nella medietà” (dunque anche nell’ignoranza) e digitalmente quasi analfabeti.

Le radici di questa condizione sono note: il degrado e il declino della scuola, la quasi totale scomparsa delle tradizionali “agenzie educative” (negli anni Sessanta e Settanta lo erano anche i partiti, i sindacati, le parrocchie, i circoli e le associazioni sociali), la tendenza a non leggere (solo un italiano su due prende in mano un libro almeno una volta all’anno), la crescente abitudine a informarsi sbrigativamente e dunque malamente solo su social e Tv (le vendite dei quotidiani sono in calo costante e il governo non mostra alcun interesse a sostenere i processi di ammodernamento tecnologico e di miglioramento qualitativo dell’editoria giornalistica).

È la stagione dell’ignoranza, “l’ignoranza di quelli che sanno tutto”, chiosa ironicamente Aldo Grasso sul Corriere della Sera (15 dicembre). Un’ignoranza, per giunta, esibita, rivendicata, spavaldamente contrapposta a chi mette in campo le proprie competenze e conoscenze (resta famoso il protervo “Questo lo dice lei…” contrapposto da una parlamentare dei 5Stelle a Pier Carlo Padoan, uno dei maggiori economisti internazionali, che ragionava di sviluppo economico e misure di governo sulla base di analisi scientifiche e dati).

Ne soffre il discorso pubblico, sempre più impoverito e banalizzato. Ne risente negativamente la qualità della stessa democrazia, fondata com’è sulla capacità dei cittadini di poter esprimere un giudizio critico ben informato, di far valere un’opinione fondata non sugli istinti, le paure, le distorsioni della propaganda, ma sulla consapevolezza dei problemi e la discussione delle possibili soluzioni.

La democrazia liberale, insomma, non può non avere un pilastro nella buona scuola, nella diffusione della conoscenza, indispensabile sia alla cittadinanza consapevole e alla partecipazione responsabile, sia alla ricerca scientifica e al progresso. Qualunque regime autoritario, invece, tiene in sospetto, sino all’aperta ostilità, la formazione di qualità, l’informazione autonoma, il pensiero critico, la stessa libertà della ricerca scientifica. La lezione di Isaiah Berlin, Jurgen Habermas, Karl Popper e Norberto Bobbio è molto chiara e ancora di grande attualità. L’Europa migliore in cui crediamo ne reca l’impronta essenziale.

C’è un secondo aspetto su cui vale la pena insistere. E cioè quello sulle conseguenze negative dell’ignoranza crescente e della subcultura antiscientifica sulla competitività dell’Italia.

Nella stagione del primato della “economia della conoscenza”, infatti, proprio la gestione della transizione ambientale e digitale e l’utilizzo produttivo dell’Intelligenza Artificiale chiedono un insieme di competenze multidisciplinari sempre più sofisticate, una formazione di lungo periodo ben al di là dei tradizionali percorsi scolastici e universitari.

L’attitudine alla creatività, con cui storicamente abbiamo supplito alle carenze formative, non è più sufficiente. Una solida cultura d’impresa all’altezza delle sfide competitive internazionali, ha bisogno di essere “politecnica”, aperta, dinamica, in continua evoluzione. La produttività, soprattutto nei settori della manifattura d’avanguardia e dei servizi high tech, può essere garantita solo da elevati livelli culturali, non solo tecnici, ma anche umanistici in senso lato. La condizione italiana, con un basso numero di laureati e con quote elevate di “analfabetismo funzionale” di cui abbiamo appena parlato, è dunque particolarmente preoccupante.

C’è ancora una considerazione da fare. Anche l’attitudine orgogliosa al “saper fare”, così preziosa per gli imprenditori, ha bisogno di essere accompagnata dall’impegno a “far sapere”, a costruire un nuovo e migliore racconto dell’intraprendenza, dell’industria e del lavoro.

Investire sulla formazione e sulla conoscenza, dunque. È l’esigenza fondamentale cui dare risposte. Le risorse del Pnnr avrebbero dovuto essere utilizzate proprio in questa direzione. Vedremo, solo al termine del percorso di spesa dei fondi, quanti investimenti su scuola, università, formazione, conoscenza, transizione digitale e Intelligenza Artificiale, innovazione sono stati fatti e con che risultati. Di certo, oggi resta soprattutto la preoccupazione per l’ignoranza crescente, la scarsa produttività del sistema Italia nel suo complesso, la crisi di competitività rispetto ai concorrenti internazionali.

E la notte della conoscenza, della scienza e dello sviluppo rischia purtroppo di non essere più “chiara”.

(foto Getty Images)

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