Milano è tutt’altro che violenta e “fuori controllo” ma ai divari crescenti vanno date risposte solidali
Milano, ovvero la via commerciale più cara al mondo, Montenapoleone, con 20mila euro al metro quadro di canone commerciale annuale, più che nell’Upper 5th Avenue a New York, nella New Bond Street a Londra e nella Tsim Sha Tsui di Hong Kong (con un aumento del 30% in due anni). La ricchezza, i consumi opulenti, la grande moda.
Milano, ovvero il Corvetto, periferia carica di tensioni sociali e proteste infiammate, preoccupazioni per il lavoro e il reddito, disagi legati alla difficile integrazione delle nuove generazioni e alle paure degli anziani.
Ma si può davvero raccontare soltanto così, Milano, in queste sintesi estreme ricavate dalle cronache degli ultimi giorni di novembre, con il cono di luce sparato sulle drammatiche divaricazioni economiche e sociali, tra le mille luci del lusso e la notte buia e dolorosa di chi fa sempre più fatica per tirare a campare?
Naturalmente no. Adesso che s’è un po’ depositata la polvere delle polemiche sulla “rivolta del Corvetto” o sulla “polveriera Corvetto” (le frasi più usate sui media, dopo la morte del giovane Ramy Elgam durante un inseguimento tra uno scooter e una “gazzella” dei carabinieri), vale la pena cercare di capire meglio quali siano gli aspetti più evidenti e le radici profonde delle evoluzioni economiche e sociali che riguardano la metropoli (magari parlando anche di “involuzioni”) e che indicazioni trarre da una serie di fenomeni che chiamano in causa, oltre che la politica e la pubblica amministrazione, anche la società civile, le forze economiche e la cultura.
“Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”, scriveva Italo Calvino nel 1972, più di mezzo secolo fa, mettendo in pagina, in un dialogo immaginario tra Marco Polo e il Kublai Khan, undici serie di “città invisibili” e ragionando di memoria, desideri, segni, scambi, nomi, occhi e di spazi urbani “sottili”, “continui”, “nascosti” e di tanto altro ancora. Era un poema d’amore per quei luoghi in cui già allora e oramai sempre più intensamente s’addensa una composita umanità e in cui si fanno i conti con una difficile, controversa e, perché no?, contraddittoria modernità (d’altronde contraddirsi significa “contenere moltitudini”, secondo l’acuta intuizione poetica di Walt Whitman).
Come succede in tutte le storie d’amore, Calvino metteva in luce aspettative, illusioni, delusioni, felicità luminose e taglienti dolori di tradimento e d’abbandono. E però, come in ogni gioco dell’intelligenza e della volontà, lasciava intravvedere voglia di capire e bisogno d’intervenire. Su più piani. La ragione. E i sentimenti. Perché, ricordando Blaise Pascal, il cuore ha ragioni che la ragione non conosce.
Cercare di capire, dunque. E indagare, ricercare, esplorare. Ancora Calvino: “Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.
Che domande facciamo, dunque, oggi a Milano? D’essere comunque fedele, pur nel cuore di radicali, impetuose trasformazioni, alla capacità di tenere insieme intraprendenza personale e valori sociali, produttività e inclusione, competitività economica e solidarietà. L’attenzione ai soldi. E lo sguardo sinceramente compassionevole. La ricchezza e la misura, l’eleganza, il rigore. Il successo. E la buona cultura aperta e creativa. Una miscela speciale di capitalismo e riformismo, mercato e interessi generali. Milano, insomma, paradigma di come si possa declinare in modo efficace la sintesi europea tra democrazia, mercato e welfare.
Proprio per questo speciale “capitale sociale”, per lunghe stagioni della storia è stato chiaro che “milanesi si diventa”, pur venendo da Parma e da Palermo, da Treviso e da Bari, da Firenze e da Napoli, da uno dei tanti comuni italiani meno dinamici per imparare, proprio attraverso l’impresa e il lavoro, a essere produttori e, soprattutto, cittadini. Una religione laica (ben presente anche negli ambienti cattolici) del “fare, fare bene e fare del bene”. La “città che sale” e che include, appunto.
Da qualche tempo, però, l’aria è cambiata. I divari economici e sociali sono cresciuti, come ha documentato bene Il Giorno (24 novembre), mostrando una “Milano a due facce”, con “l’abisso del reddito cinque volte più alto nel centro città” rispetto alle periferie come Quarto Oggiaro e con un aumento dei “lavoratori poveri” e precari. E sul Corriere della Sera (21 novembre) Giangiacomo Schiavi, scrupoloso analista di dati, sentimenti e opinioni cittadine, ha raccontato la crisi per la qualità della vita e della felicità “senza cinquemila euro al mese”. E tre giorni dopo (24 novembre) ha insistito: “Nella Milano dell’attrattività e dell’eventismo c’è una povertà fatta di vite al minimo, di persone che cercano di risalire su un ascensore sociale e non ce la fanno. Sono storie che contraddicono la visione di un uguale status di cittadinanza, storie di uomini e donne invisibili sopraffatti dalle emergenze, che mostrano un distacco dalla vita civile e si nascondono nella vergogna di una cosa per un piatto di minestra nelle mense della solidarietà ambrosiana”.
Ecco anche la Repubblica (17 novembre): “Nuovi residenti in calo, sull’addio a Milano pesa l’effetto carovita”. Nel ‘24, infatti (dati ad agosto) hanno lasciato la città 50mila persone, a fronte di 35mila nuovi arrivi. Pesa l’aumento del costo della vita, ben maggiore degli incrementi di salari e stipendi medi. E a dominare negativamente queste tendenze, c’è il boom insopportabile dei valori immobiliari: “Affitti più costosi del 40% in cinque anni. C’è il caro-casa dietro le nuove povertà”, scrive Zita Dazzi su la Repubblica (24 novembre) sulla base dei dati di una ricerca dell’Università Bicocca per la Fondazione Pellegrini.
Ecco un punto chiave: grazie alla legge Renzi del 2017 sulla flat tax da 100mila euro (portata a 200mila euro dal governo Meloni nell’agosto scorso) circa 1.600 super ricchi hanno scelto di vivere in Italia e soprattutto a Milano, invece che a Londra o in altre metropoli internazionali, facendo impazzire innanzitutto il mercato immobiliare. E l’Italia “é diventata un paradiso fiscale in grado di fare concorrenza alla Svizzera”, critica Ferruccio de Bortoli (Corriere della Sera, 2 dicembre).
Disparità sociali in aumento, in una Milano affollata da city users benestanti e sempre meno da cittadini con un progetto di vita, un amore per gli spazi, i servizi e i valori comuni (cultura compresa) e un’attenzione severa per la qualità della vita in generale, dalla sanità alla scuola, dalla sicurezza alle relazioni di vicinato.
Milano, insomma, ha bisogno di rileggere le pagine intense di Alberto Savinio, “ascolta il tuo cuore, città”. E subire meno il fascino del palcoscenico di mode e consumi e dedicare invece maggiore attenzione all’economia reale, ai salari, ai progetti per i giovani, alla solidarietà. Ritrovare l’anima ambrosiana, appunto.
Tutto sbagliato, tutto da rifare, allora? Naturalmente no.
Milano è città molteplice, poliedrica, forte delle tante differenze presenti al suo interno e di una ancora solida cultura della cittadinanza attiva (benché adesso segnata da crepe e tarli). E dunque va raccontata bene nella sua complessità e amministrata con lungimiranza generosa.
Milano, si sa, è ipercritica con se stessa. Esigente. Segnata da un’etica del lavoro e del bene comune che ha radici ancora solide (i Verri, Beccaria, Manzoni, Cattaneo) e attualità d’impresa (la lezione delle grandi famiglie imprenditoriali, Pirelli, Bocconi, Falck, Borletti, non ha esaurita la sua eco e viene riletta dalle nuove generazioni di imprenditori e imprenditrici dell’economia reale). Ha ancora la dote d’una sensibilità acuta per disparità eccessive e intollerrabili inefficienze con ricadute sociali. Una virtù. Che non va mortificata.
Ecco perché sono sbagliate le letture schiacciate sui fenomeni estremi, pur allarmanti, come se fossimo di fronte a una città fuori controllo. E altrettanto fuorvianti i giudizi effimeri sul successo e sul rapido arricchimento. Milano ha una sua straordinaria complessità, tutta ancora da leggere bene, fare emergere, valorizzare.
Nel racconto metropolitano, dunque, possono emergere le iniziative progettate dal Comune per l’housing sociale, tenendo in conto diritti e aspettative dei 200mila studenti universitari, il buon futuro di Milano. La crescita di Mind (Milano Innovation District) nell’ex area dove quasi dieci anni fa l’Expo celebrò la ripresa della città fino a farne un simbolo, “the place to be”, secondo il New York Times. La Scala che apre la visione della “prima” del 7 dicembre, sant’Ambrogio, agli spettatori in 37 punti diversi della città, dalla Galleria a San Vittore e ai maxi schermi nelle periferie, perché la buona cultura è popolare e di tutti. L’Assolombarda che inaugura al suo interno un asilo nido aperto al quartiere, come stimolo per tutte le imprese iscritte a fare altrettanto. E il Museo della Scienza e della Tecnica che inaugura un nuovo Playlab per i bambini, imparare giocando.
Le cronache dei giornali milanesi, di buone pratiche economiche e sociali, offrono parecchi esempi, accanto alle inchieste su tutto ciò che non va.
Milano città molteplice, insomma. Da saper leggere. E, perché no?, severamente continuare ad amare.
“A Milano serve più integrazione, basta con i catastrofismi”, sintetizza l’arcivescovo Mario Delpini: “Fuori dal centro scintillante ci sono rioni con problemi economici, ma non sono ghetti. Lì ci vogliono dialogo e accoglienza” (la Repubblica, 29 novembre). E Donatella Sciuto, rettrice del Politecnico, università di peso e prestigio a livello internazionale (la Repubblica, 30 novembre), invita a “ricucire la città”, “fare sentire vicinanza, fare parlare uno con l’altro i pezzi di Milano”, ricordando di avere inaugurato, lo scorso anno, uno studentato proprio al Corvetto. Dove comunque lavorano “le voci della realtà che costruiscono ponti”: la Comunità di Sant’Egidio, le suore di via Martinengo, una serie di cooperative e di centri sociali. Per “lavorare insieme sull’inclusione”, appunto, aggiunge la Sciuto. Senza esasperare i conflitti.
Se questo è il contesto, di problemi e ferite sociali ma anche di impegno e pensieri generosi, vale la pena guardare anche al di là della cronaca. E, per esempio, continuare a leggere Calvino, sino alle ultime pagine de “Le città infinite”: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
(foto Getty Images)
Milano, ovvero la via commerciale più cara al mondo, Montenapoleone, con 20mila euro al metro quadro di canone commerciale annuale, più che nell’Upper 5th Avenue a New York, nella New Bond Street a Londra e nella Tsim Sha Tsui di Hong Kong (con un aumento del 30% in due anni). La ricchezza, i consumi opulenti, la grande moda.
Milano, ovvero il Corvetto, periferia carica di tensioni sociali e proteste infiammate, preoccupazioni per il lavoro e il reddito, disagi legati alla difficile integrazione delle nuove generazioni e alle paure degli anziani.
Ma si può davvero raccontare soltanto così, Milano, in queste sintesi estreme ricavate dalle cronache degli ultimi giorni di novembre, con il cono di luce sparato sulle drammatiche divaricazioni economiche e sociali, tra le mille luci del lusso e la notte buia e dolorosa di chi fa sempre più fatica per tirare a campare?
Naturalmente no. Adesso che s’è un po’ depositata la polvere delle polemiche sulla “rivolta del Corvetto” o sulla “polveriera Corvetto” (le frasi più usate sui media, dopo la morte del giovane Ramy Elgam durante un inseguimento tra uno scooter e una “gazzella” dei carabinieri), vale la pena cercare di capire meglio quali siano gli aspetti più evidenti e le radici profonde delle evoluzioni economiche e sociali che riguardano la metropoli (magari parlando anche di “involuzioni”) e che indicazioni trarre da una serie di fenomeni che chiamano in causa, oltre che la politica e la pubblica amministrazione, anche la società civile, le forze economiche e la cultura.
“Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”, scriveva Italo Calvino nel 1972, più di mezzo secolo fa, mettendo in pagina, in un dialogo immaginario tra Marco Polo e il Kublai Khan, undici serie di “città invisibili” e ragionando di memoria, desideri, segni, scambi, nomi, occhi e di spazi urbani “sottili”, “continui”, “nascosti” e di tanto altro ancora. Era un poema d’amore per quei luoghi in cui già allora e oramai sempre più intensamente s’addensa una composita umanità e in cui si fanno i conti con una difficile, controversa e, perché no?, contraddittoria modernità (d’altronde contraddirsi significa “contenere moltitudini”, secondo l’acuta intuizione poetica di Walt Whitman).
Come succede in tutte le storie d’amore, Calvino metteva in luce aspettative, illusioni, delusioni, felicità luminose e taglienti dolori di tradimento e d’abbandono. E però, come in ogni gioco dell’intelligenza e della volontà, lasciava intravvedere voglia di capire e bisogno d’intervenire. Su più piani. La ragione. E i sentimenti. Perché, ricordando Blaise Pascal, il cuore ha ragioni che la ragione non conosce.
Cercare di capire, dunque. E indagare, ricercare, esplorare. Ancora Calvino: “Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.
Che domande facciamo, dunque, oggi a Milano? D’essere comunque fedele, pur nel cuore di radicali, impetuose trasformazioni, alla capacità di tenere insieme intraprendenza personale e valori sociali, produttività e inclusione, competitività economica e solidarietà. L’attenzione ai soldi. E lo sguardo sinceramente compassionevole. La ricchezza e la misura, l’eleganza, il rigore. Il successo. E la buona cultura aperta e creativa. Una miscela speciale di capitalismo e riformismo, mercato e interessi generali. Milano, insomma, paradigma di come si possa declinare in modo efficace la sintesi europea tra democrazia, mercato e welfare.
Proprio per questo speciale “capitale sociale”, per lunghe stagioni della storia è stato chiaro che “milanesi si diventa”, pur venendo da Parma e da Palermo, da Treviso e da Bari, da Firenze e da Napoli, da uno dei tanti comuni italiani meno dinamici per imparare, proprio attraverso l’impresa e il lavoro, a essere produttori e, soprattutto, cittadini. Una religione laica (ben presente anche negli ambienti cattolici) del “fare, fare bene e fare del bene”. La “città che sale” e che include, appunto.
Da qualche tempo, però, l’aria è cambiata. I divari economici e sociali sono cresciuti, come ha documentato bene Il Giorno (24 novembre), mostrando una “Milano a due facce”, con “l’abisso del reddito cinque volte più alto nel centro città” rispetto alle periferie come Quarto Oggiaro e con un aumento dei “lavoratori poveri” e precari. E sul Corriere della Sera (21 novembre) Giangiacomo Schiavi, scrupoloso analista di dati, sentimenti e opinioni cittadine, ha raccontato la crisi per la qualità della vita e della felicità “senza cinquemila euro al mese”. E tre giorni dopo (24 novembre) ha insistito: “Nella Milano dell’attrattività e dell’eventismo c’è una povertà fatta di vite al minimo, di persone che cercano di risalire su un ascensore sociale e non ce la fanno. Sono storie che contraddicono la visione di un uguale status di cittadinanza, storie di uomini e donne invisibili sopraffatti dalle emergenze, che mostrano un distacco dalla vita civile e si nascondono nella vergogna di una cosa per un piatto di minestra nelle mense della solidarietà ambrosiana”.
Ecco anche la Repubblica (17 novembre): “Nuovi residenti in calo, sull’addio a Milano pesa l’effetto carovita”. Nel ‘24, infatti (dati ad agosto) hanno lasciato la città 50mila persone, a fronte di 35mila nuovi arrivi. Pesa l’aumento del costo della vita, ben maggiore degli incrementi di salari e stipendi medi. E a dominare negativamente queste tendenze, c’è il boom insopportabile dei valori immobiliari: “Affitti più costosi del 40% in cinque anni. C’è il caro-casa dietro le nuove povertà”, scrive Zita Dazzi su la Repubblica (24 novembre) sulla base dei dati di una ricerca dell’Università Bicocca per la Fondazione Pellegrini.
Ecco un punto chiave: grazie alla legge Renzi del 2017 sulla flat tax da 100mila euro (portata a 200mila euro dal governo Meloni nell’agosto scorso) circa 1.600 super ricchi hanno scelto di vivere in Italia e soprattutto a Milano, invece che a Londra o in altre metropoli internazionali, facendo impazzire innanzitutto il mercato immobiliare. E l’Italia “é diventata un paradiso fiscale in grado di fare concorrenza alla Svizzera”, critica Ferruccio de Bortoli (Corriere della Sera, 2 dicembre).
Disparità sociali in aumento, in una Milano affollata da city users benestanti e sempre meno da cittadini con un progetto di vita, un amore per gli spazi, i servizi e i valori comuni (cultura compresa) e un’attenzione severa per la qualità della vita in generale, dalla sanità alla scuola, dalla sicurezza alle relazioni di vicinato.
Milano, insomma, ha bisogno di rileggere le pagine intense di Alberto Savinio, “ascolta il tuo cuore, città”. E subire meno il fascino del palcoscenico di mode e consumi e dedicare invece maggiore attenzione all’economia reale, ai salari, ai progetti per i giovani, alla solidarietà. Ritrovare l’anima ambrosiana, appunto.
Tutto sbagliato, tutto da rifare, allora? Naturalmente no.
Milano è città molteplice, poliedrica, forte delle tante differenze presenti al suo interno e di una ancora solida cultura della cittadinanza attiva (benché adesso segnata da crepe e tarli). E dunque va raccontata bene nella sua complessità e amministrata con lungimiranza generosa.
Milano, si sa, è ipercritica con se stessa. Esigente. Segnata da un’etica del lavoro e del bene comune che ha radici ancora solide (i Verri, Beccaria, Manzoni, Cattaneo) e attualità d’impresa (la lezione delle grandi famiglie imprenditoriali, Pirelli, Bocconi, Falck, Borletti, non ha esaurita la sua eco e viene riletta dalle nuove generazioni di imprenditori e imprenditrici dell’economia reale). Ha ancora la dote d’una sensibilità acuta per disparità eccessive e intollerrabili inefficienze con ricadute sociali. Una virtù. Che non va mortificata.
Ecco perché sono sbagliate le letture schiacciate sui fenomeni estremi, pur allarmanti, come se fossimo di fronte a una città fuori controllo. E altrettanto fuorvianti i giudizi effimeri sul successo e sul rapido arricchimento. Milano ha una sua straordinaria complessità, tutta ancora da leggere bene, fare emergere, valorizzare.
Nel racconto metropolitano, dunque, possono emergere le iniziative progettate dal Comune per l’housing sociale, tenendo in conto diritti e aspettative dei 200mila studenti universitari, il buon futuro di Milano. La crescita di Mind (Milano Innovation District) nell’ex area dove quasi dieci anni fa l’Expo celebrò la ripresa della città fino a farne un simbolo, “the place to be”, secondo il New York Times. La Scala che apre la visione della “prima” del 7 dicembre, sant’Ambrogio, agli spettatori in 37 punti diversi della città, dalla Galleria a San Vittore e ai maxi schermi nelle periferie, perché la buona cultura è popolare e di tutti. L’Assolombarda che inaugura al suo interno un asilo nido aperto al quartiere, come stimolo per tutte le imprese iscritte a fare altrettanto. E il Museo della Scienza e della Tecnica che inaugura un nuovo Playlab per i bambini, imparare giocando.
Le cronache dei giornali milanesi, di buone pratiche economiche e sociali, offrono parecchi esempi, accanto alle inchieste su tutto ciò che non va.
Milano città molteplice, insomma. Da saper leggere. E, perché no?, severamente continuare ad amare.
“A Milano serve più integrazione, basta con i catastrofismi”, sintetizza l’arcivescovo Mario Delpini: “Fuori dal centro scintillante ci sono rioni con problemi economici, ma non sono ghetti. Lì ci vogliono dialogo e accoglienza” (la Repubblica, 29 novembre). E Donatella Sciuto, rettrice del Politecnico, università di peso e prestigio a livello internazionale (la Repubblica, 30 novembre), invita a “ricucire la città”, “fare sentire vicinanza, fare parlare uno con l’altro i pezzi di Milano”, ricordando di avere inaugurato, lo scorso anno, uno studentato proprio al Corvetto. Dove comunque lavorano “le voci della realtà che costruiscono ponti”: la Comunità di Sant’Egidio, le suore di via Martinengo, una serie di cooperative e di centri sociali. Per “lavorare insieme sull’inclusione”, appunto, aggiunge la Sciuto. Senza esasperare i conflitti.
Se questo è il contesto, di problemi e ferite sociali ma anche di impegno e pensieri generosi, vale la pena guardare anche al di là della cronaca. E, per esempio, continuare a leggere Calvino, sino alle ultime pagine de “Le città infinite”: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
(foto Getty Images)