Il valore della tradizione non ha sapore di nostalgia, il futuro è un prodotto di ingegneri, filosofi e artisti
“Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita”. La frase è di Ernesto de Martino, uno dei più autorevoli antropologi europei. E riguarda tutti coloro che provano, anche a fatica, a tenere insieme il valore delle radici con quello della scoperta e dell’avventura, l’identità delle origini con le nuove identità del lavoro, della famiglia, degli amici e dei compagni e compagne di vita via via trovati. Identità multiple, in movimento. Senza dimenticare. E senza chiudersi nelle trappole della nostalgia. Facendo tesoro, semmai, di un’altra lezione essenziale, quella del filosofo francese Emmanuel Lévinas, che ci ha insegnato come e quanto l’identità stia nelle relazioni, “negli occhi dell’altro”. La dimensione locale che si confronta con il mondo, insomma. L’orgoglio delle radici che si apre a una più profonda comprensione dei rapporti tra sé e gli altri da sé e dunque la comunità, la civitas, le altre e diverse aggregazioni sociali e culturali. Nessun uomo, d’altronde, è un’isola. Né una valle chiusa, impaurita, ostile.
Le parole di de Martino e Lévinas tornano in mente in questi giorni tesi, in cui si discute molto di identità italiana e di radici storiche della nostra cultura, da valorizzare con crescente impegno. E dunque anche di modifica dei processi formativi e dei contenuti dello studio nelle nostre scuole.
Il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha infatti annunciato, dal ‘26-‘27, il ritorno dello studio del latino alle medie (anche se facoltativo, per un’ora alla settimana), il concentrarsi della storia sui “popoli italici”, sui Greci e i Romani e sulle origini del Cristianesimo (al liceo lo sguardo si allargherà al resto della storia del mondo). E, ancora, i versi dei nostri poeti da imparare a memoria e la lettura e lo studio della Bibbia accanto ai grandi classici dell’Iliade e dell’Odissea. “Prendiamo il meglio della nostra tradizione per una scuola capace di costruire il futuro”, ha sintetizzato il ministro.
Il dibattito che ne è seguito e che continua appassionatamente sulle pagine, scritte e digitali, dei media, contrappone radici a aperture culturali, locale a globale, retoriche nostalgiche a sguardi innovativi. “Il sapere conteso”, sintetizza brillantemente Agnese Pini, direttrice del Quotidiano Nazionale (Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno, 19 gennaio). Al di là della contesa, comunque, “l’istruzione e la scuola sono una semina di prospettive, il campo su cui si misurano la creatività e la fertilità di un popolo e il perimetro entro cui il popolo si riconosce. Sono dunque lo specchio della lungimiranza della politica, delle istituzioni, dei partiti e dei governi”. Una lungimiranza, va aggiunto, spesso carente.
Quanto allo “scontro delle identità”, che investe la scuola e va oltre, Antonio Polito, sul Corriere della Sera (19 gennaio), nota la negatività delle tendenze, non solo italiane, alla “frammentazione sociale”, si preoccupa di “una società che va in pezzi per i conflitti tra etnia, genere, corpo, classe sociale, orientamento sessuale” e commenta: “Il tempo dell’identità non sa concepire la persona se non come parte. Dovremmo resistergli. Perché la persona, diceva Ratzinger, è un tutto che si riferisce a un tutto”.
Il richiamo opportuno al Papa raffinato teologo consente di fare i conti con un’altra essenziale dimensione, aperta e dialogica, della nostra cultura europea: quell’ “umanesimo integrale” che ha animato la riflessione filosofica di Jacques Maritain e ispirato alcune delle pagine migliori del personalismo cristiano di Emmanuel Mounier.
È dunque il caso di alzare lo sguardo dalle passioni polemiche tipiche del dibattito politico italiano e guardare invece verso l’orizzonte delle trasformazioni necessarie. Facendo tesoro della lungimiranza di Zygmunt Baumann: “Se pensi all’anno prossimo semina il granturco. Se pensi ai prossimi dieci anni pianta un albero. Se pensi ai prossimi cento anni istruisci le persone”. Una sfida politica e culturale, dunque. Una missione intellettuale che, per essere davvero tale, non ha bisogno di nostalgia ma di gusto per la scrittura generosa di “storie al futuro”, di nuove mappe ispirate dall’ “avvenire della memoria”.
Come? Una indicazione essenziale la si ricava dal discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sabato scorso, alla cerimonia per l’avvio delle attività di Agrigento come capitale italiana della Cultura 2025.
“Chi è aperto alla conoscenza del mondo sa che la vita è frutto di dialogo”, ha detto infatti Mattarella, ricordando che “la ricchezza del Paese sta nella sua pluralità”. E “la cultura è frutto di incontro”.
Sono parole chiare, esplicite, cariche di valori positivi e forti di un progetto: la costruzione o meglio il rafforzamento e il rilancio di una cultura aperta e plurale come sostanza della democrazia, una migliore consapevolezza dei propri valori nazionali (ecco, appunto, il senso della storia, la valenza positiva della tradizione che, parafrasando Gustav Mahler, non è “custodia delle ceneri ma culto del fuoco”) ma anche delle proprie responsabilità nel ridisegno di nuovi e migliori equilibri dell’Europa e del mondo. Di una nuova e migliore misura della conoscenza, della formazione, della rappresentazione del mondo.
Ancora Mattarella: “Viviamo un tempo in cui tutto sembra comprimersi ed esaurirsi sull’istante del presente in cui la tecnologia pretende talvolta di monopolizzare il pensiero piuttosto che porsi al servizio della conoscenza”. La cultura, al contrario, “è rivolgersi a un orizzonte ampio, ribellarsi a ogni compressione del nostro umanesimo, quello che ha reso grande la nostra civiltà”.
Un discorso, ancora una volta, di ampio respiro. E quanto mai opportuno anche perché fatto in una città, Agrigento, che ha robuste radici storiche nella civiltà della Magna Grecia, antiche sofisticate ascendenze culturali (Empedocle, filosofo politico e scienziato, considerato un maestro da Aristotele) e ricchezza letteraria tra Novecento e contemporaneità (Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Andrea Camilleri). Un patrimonio da fare valere.
La città era stata degradata dal malgoverno amministrativo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (le speculazioni edilizie del “sacco di Agrigento”), avvilita in provincia dalla violenza mafiosa, umiliata dalle carenze di servizi civili essenziali (l’acqua, innanzitutto) che la pongono da lungo tempo in coda alla classifica della qualità della vita nelle città italiane. Eppure resta splendida, con le sue testimonianze architettoniche e culturali della Valle dei Templi. E in cerca di riscatto, di rinascita.
Proprio qui, dunque, ha senso di parlare di conoscenza e futuro, di cultura e sviluppo economico e sociale. Qui, pensare a come declinare una crescita di respiro europeo e mediterraneo.
Eccole, allora, le parole chiave: cultura, conoscenza, umanesimo.
Chi è che le interpreta nel presente? E chi costruisce il futuro? Si torna al discorso sulla formazione, sulla scuola, sul rapporto fra tradizione e innovazione. Sui valori di fondo della nostra civiltà.
Il futuro è degli ingegneri che hanno studiato filosofia e dei filosofi che sanno fare i conti con il senso profondo della scienza e della libertà della ricerca. Dei giuristi che conoscono il valore delle diversità da tutelare anche se la norma, alla Kelsen, è impersonale e astratta. Dei letterati ingegneri o chimici alla Primo Levi e alla Sinisgalli. Degli imprenditori che sanno tenere insieme cultura del mercato e responsabilità sociale. Dei matematici, dei fisici, degli statistici, degli economisti, dei cyberscienziati e degli studiosi di etica che progettano e scrivono, responsabilmente, gli algoritmi dell’Artificial Intelligence. Delle ragazze e dei ragazzi che pensano all’ambiente e alla sostenibilità sui temi del lavoro e della lotta alle diseguaglianze.
Cultura, appunto. Più esattamente, “cultura politecnica”, densa di saperi umanistici e di conoscenze scientifiche, di bellezza poetica e di passione per l’innovazione. D’altronde, è proprio un grande artista come Michelangelo Pistoletto a fare opera d’arte del simbolo dell’infinito, simile a un 8 sdraiato in orizzontale, una dimensione matematica che ha la forza d’una sognante poesia.
(Foto Getty Images)
“Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita”. La frase è di Ernesto de Martino, uno dei più autorevoli antropologi europei. E riguarda tutti coloro che provano, anche a fatica, a tenere insieme il valore delle radici con quello della scoperta e dell’avventura, l’identità delle origini con le nuove identità del lavoro, della famiglia, degli amici e dei compagni e compagne di vita via via trovati. Identità multiple, in movimento. Senza dimenticare. E senza chiudersi nelle trappole della nostalgia. Facendo tesoro, semmai, di un’altra lezione essenziale, quella del filosofo francese Emmanuel Lévinas, che ci ha insegnato come e quanto l’identità stia nelle relazioni, “negli occhi dell’altro”. La dimensione locale che si confronta con il mondo, insomma. L’orgoglio delle radici che si apre a una più profonda comprensione dei rapporti tra sé e gli altri da sé e dunque la comunità, la civitas, le altre e diverse aggregazioni sociali e culturali. Nessun uomo, d’altronde, è un’isola. Né una valle chiusa, impaurita, ostile.
Le parole di de Martino e Lévinas tornano in mente in questi giorni tesi, in cui si discute molto di identità italiana e di radici storiche della nostra cultura, da valorizzare con crescente impegno. E dunque anche di modifica dei processi formativi e dei contenuti dello studio nelle nostre scuole.
Il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha infatti annunciato, dal ‘26-‘27, il ritorno dello studio del latino alle medie (anche se facoltativo, per un’ora alla settimana), il concentrarsi della storia sui “popoli italici”, sui Greci e i Romani e sulle origini del Cristianesimo (al liceo lo sguardo si allargherà al resto della storia del mondo). E, ancora, i versi dei nostri poeti da imparare a memoria e la lettura e lo studio della Bibbia accanto ai grandi classici dell’Iliade e dell’Odissea. “Prendiamo il meglio della nostra tradizione per una scuola capace di costruire il futuro”, ha sintetizzato il ministro.
Il dibattito che ne è seguito e che continua appassionatamente sulle pagine, scritte e digitali, dei media, contrappone radici a aperture culturali, locale a globale, retoriche nostalgiche a sguardi innovativi. “Il sapere conteso”, sintetizza brillantemente Agnese Pini, direttrice del Quotidiano Nazionale (Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno, 19 gennaio). Al di là della contesa, comunque, “l’istruzione e la scuola sono una semina di prospettive, il campo su cui si misurano la creatività e la fertilità di un popolo e il perimetro entro cui il popolo si riconosce. Sono dunque lo specchio della lungimiranza della politica, delle istituzioni, dei partiti e dei governi”. Una lungimiranza, va aggiunto, spesso carente.
Quanto allo “scontro delle identità”, che investe la scuola e va oltre, Antonio Polito, sul Corriere della Sera (19 gennaio), nota la negatività delle tendenze, non solo italiane, alla “frammentazione sociale”, si preoccupa di “una società che va in pezzi per i conflitti tra etnia, genere, corpo, classe sociale, orientamento sessuale” e commenta: “Il tempo dell’identità non sa concepire la persona se non come parte. Dovremmo resistergli. Perché la persona, diceva Ratzinger, è un tutto che si riferisce a un tutto”.
Il richiamo opportuno al Papa raffinato teologo consente di fare i conti con un’altra essenziale dimensione, aperta e dialogica, della nostra cultura europea: quell’ “umanesimo integrale” che ha animato la riflessione filosofica di Jacques Maritain e ispirato alcune delle pagine migliori del personalismo cristiano di Emmanuel Mounier.
È dunque il caso di alzare lo sguardo dalle passioni polemiche tipiche del dibattito politico italiano e guardare invece verso l’orizzonte delle trasformazioni necessarie. Facendo tesoro della lungimiranza di Zygmunt Baumann: “Se pensi all’anno prossimo semina il granturco. Se pensi ai prossimi dieci anni pianta un albero. Se pensi ai prossimi cento anni istruisci le persone”. Una sfida politica e culturale, dunque. Una missione intellettuale che, per essere davvero tale, non ha bisogno di nostalgia ma di gusto per la scrittura generosa di “storie al futuro”, di nuove mappe ispirate dall’ “avvenire della memoria”.
Come? Una indicazione essenziale la si ricava dal discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sabato scorso, alla cerimonia per l’avvio delle attività di Agrigento come capitale italiana della Cultura 2025.
“Chi è aperto alla conoscenza del mondo sa che la vita è frutto di dialogo”, ha detto infatti Mattarella, ricordando che “la ricchezza del Paese sta nella sua pluralità”. E “la cultura è frutto di incontro”.
Sono parole chiare, esplicite, cariche di valori positivi e forti di un progetto: la costruzione o meglio il rafforzamento e il rilancio di una cultura aperta e plurale come sostanza della democrazia, una migliore consapevolezza dei propri valori nazionali (ecco, appunto, il senso della storia, la valenza positiva della tradizione che, parafrasando Gustav Mahler, non è “custodia delle ceneri ma culto del fuoco”) ma anche delle proprie responsabilità nel ridisegno di nuovi e migliori equilibri dell’Europa e del mondo. Di una nuova e migliore misura della conoscenza, della formazione, della rappresentazione del mondo.
Ancora Mattarella: “Viviamo un tempo in cui tutto sembra comprimersi ed esaurirsi sull’istante del presente in cui la tecnologia pretende talvolta di monopolizzare il pensiero piuttosto che porsi al servizio della conoscenza”. La cultura, al contrario, “è rivolgersi a un orizzonte ampio, ribellarsi a ogni compressione del nostro umanesimo, quello che ha reso grande la nostra civiltà”.
Un discorso, ancora una volta, di ampio respiro. E quanto mai opportuno anche perché fatto in una città, Agrigento, che ha robuste radici storiche nella civiltà della Magna Grecia, antiche sofisticate ascendenze culturali (Empedocle, filosofo politico e scienziato, considerato un maestro da Aristotele) e ricchezza letteraria tra Novecento e contemporaneità (Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Andrea Camilleri). Un patrimonio da fare valere.
La città era stata degradata dal malgoverno amministrativo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (le speculazioni edilizie del “sacco di Agrigento”), avvilita in provincia dalla violenza mafiosa, umiliata dalle carenze di servizi civili essenziali (l’acqua, innanzitutto) che la pongono da lungo tempo in coda alla classifica della qualità della vita nelle città italiane. Eppure resta splendida, con le sue testimonianze architettoniche e culturali della Valle dei Templi. E in cerca di riscatto, di rinascita.
Proprio qui, dunque, ha senso di parlare di conoscenza e futuro, di cultura e sviluppo economico e sociale. Qui, pensare a come declinare una crescita di respiro europeo e mediterraneo.
Eccole, allora, le parole chiave: cultura, conoscenza, umanesimo.
Chi è che le interpreta nel presente? E chi costruisce il futuro? Si torna al discorso sulla formazione, sulla scuola, sul rapporto fra tradizione e innovazione. Sui valori di fondo della nostra civiltà.
Il futuro è degli ingegneri che hanno studiato filosofia e dei filosofi che sanno fare i conti con il senso profondo della scienza e della libertà della ricerca. Dei giuristi che conoscono il valore delle diversità da tutelare anche se la norma, alla Kelsen, è impersonale e astratta. Dei letterati ingegneri o chimici alla Primo Levi e alla Sinisgalli. Degli imprenditori che sanno tenere insieme cultura del mercato e responsabilità sociale. Dei matematici, dei fisici, degli statistici, degli economisti, dei cyberscienziati e degli studiosi di etica che progettano e scrivono, responsabilmente, gli algoritmi dell’Artificial Intelligence. Delle ragazze e dei ragazzi che pensano all’ambiente e alla sostenibilità sui temi del lavoro e della lotta alle diseguaglianze.
Cultura, appunto. Più esattamente, “cultura politecnica”, densa di saperi umanistici e di conoscenze scientifiche, di bellezza poetica e di passione per l’innovazione. D’altronde, è proprio un grande artista come Michelangelo Pistoletto a fare opera d’arte del simbolo dell’infinito, simile a un 8 sdraiato in orizzontale, una dimensione matematica che ha la forza d’una sognante poesia.
(Foto Getty Images)