Anche i “draghi locopei” sono utili per far valere conoscenza e democrazia
“La distruzione del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione”. Il giudizio è di Tullio De Mauro, linguista sofisticato e sensibile, attento anche alle dimensioni politiche del sapiente uso delle parole (politiche nel senso della polis, per dire della capacità d’una persona d’essere membro responsabile d’una comunità, un civis, insomma). E viene in mente rileggendo i suoi scritti, a otto anni dalla morte (appunto all’inizio di gennaio del 2017), per cercare un orizzonte di senso e una prospettiva di impegno intellettuale man mano che l’evoluzione e l’espansione dei social media incidono sempre più radicalmente sulla qualità del discorso pubblico, sulla formazione delle opinioni, sugli orientamenti politici delle comunità e, ancora più in generale, sui processi culturali. Sulle dinamiche della conoscenza, insomma.
Un meccanismo che investe le radici, i valori e il funzionamento della democrazia liberale, di quell’intreccio tra libertà, intraprendenza, lavoro, mercato e welfare, tra valori generali e interessi legittimi, che ha costituito la struttura portante del pensiero occidentale. Un sistema che, con sgomento e sofferenza, vediamo entrare in crisi e che però, nonostante tutti i suoi limiti, merita di essere difeso e rilanciato di fronte ai pericoli degli autoritarismi, delle tecnocrazie prepotenti e delle tentazioni, diffuse anche nel corpo dell’Europa, delle cosiddette “democrazie illiberali”.
Combattere l’involuzione e l’impoverimento del linguaggio, dunque. Evitare le secche dei like e degli emoticon e delle banalizzazioni di prese di posizione (quasi sempre emotive, frettolose, passionali, schematiche sino ai confini della rozzezza). Uscire dalle trappole dell’opinionismo slegato dai fatti, sempre più insidiose man mano che aumenta la diffusione, appunto sui social, di fake news su cui i grandi protagonisti della rete rifiutano di esercitare alcun controllo, in nome di un malinteso rispetto della “libertà di opinione” (Facebook, buon ultimo). Saper distinguere tra l’acutezza del buon senso e la superficialità del generico senso comune. E costruire nuovi e migliori strumenti di coscienza critica.
È un compito fondamentale, soprattutto di fronte alle insidie di una Artificial Intelligence che (al di là delle valenze positive legate alla ricerca scientifica e alla diagnostica medica e alle applicazioni high tech per l’industria e i servizi), nella sua dimensione “generativa” mette in azione sofisticati meccanismi di manipolazione e pertanto cambia profondamente il panorama della conoscenza e del dialogo.
La sfida politica e culturale è essenziale. E chiede un rinnovato impegno intellettuale. Perché, se è vera e fondata la crisi del tradizionale modo di concepire il lavoro intellettuale (“Pensare stanca”, ha scritto con acuta e un po’ dolente ironia David Bidussa, ragionando su “passato, presente e futuro dell’intellettuale”, per le edizioni Feltrinelli), è altrettanto necessaria la responsabilità di intervento, analisi e giudizio critico di tutto coloro che per scelte personali e professionali si misurano con la formazione delle idee, con la ricerca, con la filosofia e la scienza, con il diritto e la tecnica, l’economia e la creatività artistica, con la scrittura degli algoritmi dell’AI e con la genetica. Con la costruzione dei pensieri, insomma. E la loro espressione in parole. Tutte funzioni che richiedono libertà e senso di responsabilità.
Autonomia. E sguardo critico. Per il “piacere del testo” e del contesto. E per la memoria grata dell’indicazione di Jorge Luis Borges che colloca tra “i giusti” “chi scopre con piacere un’etimologia”, accanto a “chi è contento che esista la musica” e a chi “coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire”. La letteratura ha una valenza salvifica, per il pensiero libero e la civiltà della vita.
Può essere d’aiuto, in questa prospettiva, ricordare la lezione di Susan Sontag: “Viviamo in una cultura in cui l’intelligenza è del tutto privata di rilevanza, in una ricerca di innocenza radicale, oppure è difesa come uno strumento di autorità e repressione. A mio avviso, l’unica intelligenza degna di essere difesa è critica, dialettica, scettica, desemplificante” (la frase è tratta da “Women, the Arts and the Politics of Culture: an Interview with Susan Sontag”, 1975: cinquant’anni fa, insomma).
Torniamo, così, al buon uso delle parole. E se Emilio Isgrò, artista tra i maggiori del nostro tempo inquieto, creativamente e ironicamente gioca con le cancellature, per rimarcare le banalità e far risaltare le poche parole non cancellate che riacquistano peso, ecco Giulio Guidorizzi, studioso di antropologia del mondo antico, dedicare poco meno di 250 pagine, chiare ed essenziali a “Il lessico dei greci” ovvero “una civiltà in 30 parole” per Raffaello Cortina Editore (caos, amore, anima, giustizia e legge, patriarcato, ospitalità, destino, mito, poesia, politica e sapienza, tra le altre). Le nostre radici culturali e quindi le fondamenta del nostro futuro.
Ed ecco ancora Giuseppe Antonelli, professore di Storia della letteratura italiana all’università di Pavia, scrivere “Il mago delle parole”, appena pubblicato da Einaudi, per ricordare, soprattutto alle nuove generazioni, il valore della grammatica come strumento di conoscenza e quindi di libertà ma anche il suo fascino (evidenziando il nesso tra “grammatica” e glamour). Con una citazione evocativa, tratta da un film di grande intensità e bellezza, “L’attimo fuggente”, diretto da Peter Weir e interpretato da Robin Williams nei panni del professor John Keating, straordinario formatore di anime libere: “Imparerete ad assaporare parole e linguaggio. Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo”.
Capire, dunque. Saper leggere e parlare, come strumenti di libertà. Ricordando anche la lezione di Gianni Rodari e della sua “Grammatica della fantasia: “Tutti gli usi della parola a tutti: mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.
Che strumenti usare? Semplici. Un libro. Una penna. Leggere. E scrivere a mano.
Leggere fin da bambini e riempire le case di buoni libri. E aprire e fare rivivere biblioteche, pubbliche e private, nelle scuole, nei quartieri, nelle imprese, nelle carceri e in tutti quei luoghi in cui animare iniziative culturali e attività di diffusione della lettura (ne abbiamo parlato spesso, in questi blog). Fare convivere il libro di carta con le parole animate sugli schermi digitali. Discutere con chi scrive e assaporare il piacere, un po’ teatrale, delle letture ad alta voce. E giocare con le parole, prendendo esempio dalle pagine di un libro di grande successo, tra genitori e bambini, a metà degli anni Ottanta, “I draghi locopei” di Ersilia Zamboni, per “imparare l’italiano con i giochi di parole” (di cui “draghi locopei” è appunto l’anagramma).
Leggere per piacere e divertimento, curiosità e voglia di conoscenza. E scrivere a mano.
Le tastiere dei computer e degli altri devise digitali vanno, naturalmente, usate con disinvoltura e competenza. Ma senza trascurare il gesto della mano che impugna una matita o una penna. Perché – come confermano autorevoli studi scientifici – attiva in modo complesso il nostro cervello, stimola le reti neurali, smuove pensieri articolati, mette in movimento relazioni che migliorano l’apprendimento. Fa nascere meglio le parole e le organizza più profondamente e sapientemente.
E appunto di parole di qualità abbiamo bisogno. Di parole poetiche. E di parole scientifiche. Di parole pesanti come pietre e leggere come piume. Di parole sincere. Di parole libere e responsabili.
Conoscenza, per esempio, è proprio una bella parola.
(Foto Getty Images)
“La distruzione del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione”. Il giudizio è di Tullio De Mauro, linguista sofisticato e sensibile, attento anche alle dimensioni politiche del sapiente uso delle parole (politiche nel senso della polis, per dire della capacità d’una persona d’essere membro responsabile d’una comunità, un civis, insomma). E viene in mente rileggendo i suoi scritti, a otto anni dalla morte (appunto all’inizio di gennaio del 2017), per cercare un orizzonte di senso e una prospettiva di impegno intellettuale man mano che l’evoluzione e l’espansione dei social media incidono sempre più radicalmente sulla qualità del discorso pubblico, sulla formazione delle opinioni, sugli orientamenti politici delle comunità e, ancora più in generale, sui processi culturali. Sulle dinamiche della conoscenza, insomma.
Un meccanismo che investe le radici, i valori e il funzionamento della democrazia liberale, di quell’intreccio tra libertà, intraprendenza, lavoro, mercato e welfare, tra valori generali e interessi legittimi, che ha costituito la struttura portante del pensiero occidentale. Un sistema che, con sgomento e sofferenza, vediamo entrare in crisi e che però, nonostante tutti i suoi limiti, merita di essere difeso e rilanciato di fronte ai pericoli degli autoritarismi, delle tecnocrazie prepotenti e delle tentazioni, diffuse anche nel corpo dell’Europa, delle cosiddette “democrazie illiberali”.
Combattere l’involuzione e l’impoverimento del linguaggio, dunque. Evitare le secche dei like e degli emoticon e delle banalizzazioni di prese di posizione (quasi sempre emotive, frettolose, passionali, schematiche sino ai confini della rozzezza). Uscire dalle trappole dell’opinionismo slegato dai fatti, sempre più insidiose man mano che aumenta la diffusione, appunto sui social, di fake news su cui i grandi protagonisti della rete rifiutano di esercitare alcun controllo, in nome di un malinteso rispetto della “libertà di opinione” (Facebook, buon ultimo). Saper distinguere tra l’acutezza del buon senso e la superficialità del generico senso comune. E costruire nuovi e migliori strumenti di coscienza critica.
È un compito fondamentale, soprattutto di fronte alle insidie di una Artificial Intelligence che (al di là delle valenze positive legate alla ricerca scientifica e alla diagnostica medica e alle applicazioni high tech per l’industria e i servizi), nella sua dimensione “generativa” mette in azione sofisticati meccanismi di manipolazione e pertanto cambia profondamente il panorama della conoscenza e del dialogo.
La sfida politica e culturale è essenziale. E chiede un rinnovato impegno intellettuale. Perché, se è vera e fondata la crisi del tradizionale modo di concepire il lavoro intellettuale (“Pensare stanca”, ha scritto con acuta e un po’ dolente ironia David Bidussa, ragionando su “passato, presente e futuro dell’intellettuale”, per le edizioni Feltrinelli), è altrettanto necessaria la responsabilità di intervento, analisi e giudizio critico di tutto coloro che per scelte personali e professionali si misurano con la formazione delle idee, con la ricerca, con la filosofia e la scienza, con il diritto e la tecnica, l’economia e la creatività artistica, con la scrittura degli algoritmi dell’AI e con la genetica. Con la costruzione dei pensieri, insomma. E la loro espressione in parole. Tutte funzioni che richiedono libertà e senso di responsabilità.
Autonomia. E sguardo critico. Per il “piacere del testo” e del contesto. E per la memoria grata dell’indicazione di Jorge Luis Borges che colloca tra “i giusti” “chi scopre con piacere un’etimologia”, accanto a “chi è contento che esista la musica” e a chi “coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire”. La letteratura ha una valenza salvifica, per il pensiero libero e la civiltà della vita.
Può essere d’aiuto, in questa prospettiva, ricordare la lezione di Susan Sontag: “Viviamo in una cultura in cui l’intelligenza è del tutto privata di rilevanza, in una ricerca di innocenza radicale, oppure è difesa come uno strumento di autorità e repressione. A mio avviso, l’unica intelligenza degna di essere difesa è critica, dialettica, scettica, desemplificante” (la frase è tratta da “Women, the Arts and the Politics of Culture: an Interview with Susan Sontag”, 1975: cinquant’anni fa, insomma).
Torniamo, così, al buon uso delle parole. E se Emilio Isgrò, artista tra i maggiori del nostro tempo inquieto, creativamente e ironicamente gioca con le cancellature, per rimarcare le banalità e far risaltare le poche parole non cancellate che riacquistano peso, ecco Giulio Guidorizzi, studioso di antropologia del mondo antico, dedicare poco meno di 250 pagine, chiare ed essenziali a “Il lessico dei greci” ovvero “una civiltà in 30 parole” per Raffaello Cortina Editore (caos, amore, anima, giustizia e legge, patriarcato, ospitalità, destino, mito, poesia, politica e sapienza, tra le altre). Le nostre radici culturali e quindi le fondamenta del nostro futuro.
Ed ecco ancora Giuseppe Antonelli, professore di Storia della letteratura italiana all’università di Pavia, scrivere “Il mago delle parole”, appena pubblicato da Einaudi, per ricordare, soprattutto alle nuove generazioni, il valore della grammatica come strumento di conoscenza e quindi di libertà ma anche il suo fascino (evidenziando il nesso tra “grammatica” e glamour). Con una citazione evocativa, tratta da un film di grande intensità e bellezza, “L’attimo fuggente”, diretto da Peter Weir e interpretato da Robin Williams nei panni del professor John Keating, straordinario formatore di anime libere: “Imparerete ad assaporare parole e linguaggio. Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo”.
Capire, dunque. Saper leggere e parlare, come strumenti di libertà. Ricordando anche la lezione di Gianni Rodari e della sua “Grammatica della fantasia: “Tutti gli usi della parola a tutti: mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.
Che strumenti usare? Semplici. Un libro. Una penna. Leggere. E scrivere a mano.
Leggere fin da bambini e riempire le case di buoni libri. E aprire e fare rivivere biblioteche, pubbliche e private, nelle scuole, nei quartieri, nelle imprese, nelle carceri e in tutti quei luoghi in cui animare iniziative culturali e attività di diffusione della lettura (ne abbiamo parlato spesso, in questi blog). Fare convivere il libro di carta con le parole animate sugli schermi digitali. Discutere con chi scrive e assaporare il piacere, un po’ teatrale, delle letture ad alta voce. E giocare con le parole, prendendo esempio dalle pagine di un libro di grande successo, tra genitori e bambini, a metà degli anni Ottanta, “I draghi locopei” di Ersilia Zamboni, per “imparare l’italiano con i giochi di parole” (di cui “draghi locopei” è appunto l’anagramma).
Leggere per piacere e divertimento, curiosità e voglia di conoscenza. E scrivere a mano.
Le tastiere dei computer e degli altri devise digitali vanno, naturalmente, usate con disinvoltura e competenza. Ma senza trascurare il gesto della mano che impugna una matita o una penna. Perché – come confermano autorevoli studi scientifici – attiva in modo complesso il nostro cervello, stimola le reti neurali, smuove pensieri articolati, mette in movimento relazioni che migliorano l’apprendimento. Fa nascere meglio le parole e le organizza più profondamente e sapientemente.
E appunto di parole di qualità abbiamo bisogno. Di parole poetiche. E di parole scientifiche. Di parole pesanti come pietre e leggere come piume. Di parole sincere. Di parole libere e responsabili.
Conoscenza, per esempio, è proprio una bella parola.
(Foto Getty Images)