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Adesso tocca all’Europa attrarre scienziati e giovani in cerca di migliori condizioni di ricerca e di lavoro

“I dazi ridisegnano la mappa del commercio globale”, scrive Il Sole24Ore (6 aprile) cercando di capire non solo la portata dello shock generale per le decisioni della Casa Bianca di Donald Trump e le ricadute del protezionismo Usa, ma anche le possibili mosse dei vari attori internazionali, sia sul piano delle necessarie trattative con gli Usa, sia su quello delle nuove relazioni possibili tra i giganti asiatici (Cina e India, innanzitutto), l’Europa, il Mercosur, due grandi nazioni americane come Canada e Messico, i paesi arabi e i più dinamici protagonisti di una ripresa dell’Africa. Terreni comunque difficili, infidi, scivolosi, tra tensioni e nuovi protagonismi nel clima difficile del Grande Disordine mondiale.

La speranza è che, messa da parte l’emotività, prevalga la saggezza di chi, come l’economista Nouriel Rubini, sostiene che “serve negoziare con l’America” perché “senza un’intesa la crescita globale andrà a picco”, ben sapendo che “i mercati finanziari hanno paura della guerra commerciale degli Usa” e che in una tale condizione di tensione, “l’Unione Europea, con più stimoli fiscali e una maggiore spesa per la difesa può evitare il peggio” (La Stampa, 6 aprile). Un’indicazione di saggezza che, purtroppo inascoltata, stava già nelle considerazioni del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta all’Assiom Forex di Torino del 15 febbraio: “In un contesto già segnato da tensioni geopolitiche, commerciali e belliche, la strategia Usa di utilizzare gli annunci sui dazi come leva negoziale per ridefinire i rapporti economici e politici con altre aree del mondo potrebbe sfuggire al controllo, generando effetti ben oltre quelli desiderati, aggravando i dissidi esistenti e aprendo nuove fratture”. Dunque, meglio trattare: “Soluzioni negoziali basate sulla cooperazione non solo rappresentano un’alternativa preferibile, ma sono necessarie per evitare una spirale di conflitto che minaccerebbe la stabilità globale”.

Servono, insomma, risposte lungimiranti e ad ampio raggio, fuori dall’escalation di dazi e controdazi, minacce e ritorsioni.

Al di là delle misure sul piano commerciale, comincia a farsi strada, in ambienti economici e accademici, una considerazione che riguarda la ricerca e la scienza e dunque lo sviluppo sostenibile di lungo periodo. In sintesi: la crescita economica e i migliori equilibri sociali, proprio nella stagione del primato della “economia della conoscenza”, sono fortemente influenzati dal capitale umano o, per dirla meglio, dalle capacità intellettuali e produttive delle persone. Gli Usa, con le grandi università, tra le migliori del mondo, e i centri di ricerca ricchi di solide risorse finanziarie, sono stati tradizionalmente quanto mai attrattivi. Adesso, però, il panorama sta cambiando. “Gli accademici americani fuggono dal Paese”, scrive Viviana Mazza sul Corriere della Sera (2 aprile) raccontando i tagli e i ridimensionamenti dei finanziamenti federali alle agenzie di ricerca pubblica e alle più prestigiose università (Harvard, Columbia, Penn).

Tensioni e polemiche giornalistiche a parte, vale la pena che l’Europa si ponga il problema di come incrementare le proprie capacità attrattive delle intelligenze di tanti giovani che adesso possano guardare alle università francesi e tedesche, inglesi e italiane, spagnole e olandesi e alle imprese europee. Varando un robusto sostegno ai programmi di formazione e ricerca e di accoglienza di “cervelli”, anche di ritorno. E usando sia la leva del finanziamento di programmi comuni (con un’intesa tra Ue e Regno Unito) sia le scelte di politiche attrattive per i giovani ricercatori, professori e studenti da tutto il mondo (stipendi, abitazioni, scuole e asili per i bambini, etc.). Un rientro agevolato delle migliaia di studiosi  europei che sono andati via. E una sollecitazione a chi proprio in Europa potrebbe voler studiare e lavorare.

Una strategia del genere potrebbe essere quanto mai opportuna proprio per l’Italia, anche per cercare di rallentare e poi invertire la “fuga record” dei nostri giovani all’estero: 352mila, nel decennio 2013- 2022, nelle classi d’età tra 25 e 34 anni (dati Istat su chi ha trasferito la residenza all’estero), con 132mila laureati tra loro. Il fenomeno cresce clamorosamente nel corso del tempo: 191mila sono gli italiani emigrati nel ‘24, il 20% in più rispetto all’anno precedente. E si incupisce dunque il quadro di un’Italia che vede aggravarsi l’“inverno demografico” (appena 370mila i bambini nati nel ‘24), conosce un crescente invecchiamento e subisce la fuga delle energie più giovani, qualificate, innovative. Un’ipoteca sul futuro produttivo ma anche culturale e civile.

Serve, dunque, “un nuovo patto per il futuro”, investendo sull’istruzione ma anche sulla qualità del lavoro e della vita, sostiene Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino ed ex presidente della Compagna di San Paolo (La Stampa, 6 aprile). E Carlo Rosa, amministratore delegato di Diasorin, società high tech nel settore farmaceutico, con forti presenze internazionali, aggiunge: “Possiamo riprenderci i nostri cervelli in fuga”. E già adesso “la Ue, con i programmi ERC (European Research Council) riconosce un extra bonus ai ricercatori e agli scienziati di rientro dagli Usa”. Si può fare di meglio e di più.

Serve, insomma, costruire buona politica, con intelligenza lungimirante e fantasia, andando oltre la pur indispensabile trattativa sui dazi. Rilanciare l’industria europea. Fare leva sulle nostre capacità produttive e culturali. “Tornare a ragionare sulle fabbriche e costruire un’autonomia europea dagli Usa rispetto alla digitalizzazione e alla decarbonizzazione legata all’energia”, sostiene Patrizio Bianchi, uno dei migliori economisti italiani (QN/ Il Resto del Carlino, 6 aprile). E come competere, con i colossi Usa? “Facendo i conti su quello che abbiamo già, come i centri di ricerca e i tecnopoli di Bologna, Trieste, Ispra, Bruxelles e Lussemburgo. Anche perché con i tagli alla ricerca imposti da Trump molti studiosi stanno pensando di lasciare gli Usa. Dobbiamo attirarli, invece di piangerci addosso”. E proprio a Bologna il nuovo centro di supercalcolo Leonardo può fare da tecnostruttura di alto livello europeo per le relazioni tra Artificial Intelligence, ricerca scientifica e competitività industriale.

Un buon esempio di riferimento, sull’attrattività e i progetti industriali ad alta tecnologia, arriva appunto dall’Emilia Romagna, realtà connotata da spiccata vocazione industriale, robusto dialogo tra imprese e pubbliche amministrazioni di Regione e Comuni, attive “multinazionali tascabili”, un forte legame con la sapienza manifatturiera del territorio e un capitale sociale che, nel corso del tempo, ha privilegiato i valori della collaborazione invece che le tensioni dello scontro con concorrenti e avversari. Ben sapendo cosa significhi davvero competizione, una parola che viene dal latino cum e petere, muoversi insieme verso un obiettivo comune.

“Nessuna azienda può pensare di essere competitiva se non rende competitivo il territorio in cui si trova”, sostiene infatti, saggiamente, Andrea Pontremoli, amministratore delegato di Dallara, una delle imprese automobilistiche high tech della Motor Valley emiliana, un’area in cui sono concentrate anche altre industrie di punta dell’automotive, da Ferrari a Lamborghini e poi ancora Maserati, Pagani, Ducati, Hass Formula Uno, Racing Bull e Marelli HP. Dieci campioni manifatturieri di rilievo internazionale. Con radici solide in una zona storicamente votata all’eccellenza meccanica. E ali per volare nell’universo internazionale. Animate da un forte spirito di concorrenza tra loro, ma anche capaci di collaborare con intelligenza lungimirante. E dunque di fare nascere la Motor University of Emilia Romagna, una sapiente struttura formativa che attrae giovani talentuosi da tutto il mondo.

Racconta Pontremoli, ospite del convegno di Assolombarda sulle strategie di crescita dell’area di Monza e Brianza, cuore manifatturiero della Grande Milano (QN/ Il Giorno, 2 aprile): “Siamo un ecosistema, grazie al rapporto tra le imprese del territorio e le quattro grandi università emiliane e romagnole. E abbiamo disegnato nove lauree magistrali, tutte in lingua inglese, in settori che, secondo noi, sarebbero stati il nostro futuro: race car design, supercar design, motorbike design, supercar production, veicoli elettrici, veicoli a guida autonoma. E quest’anno facciamo duecento laureati magistrali. Il 25% degli studenti arriva da fuori Europa, per studiare l’automotive del futuro lavorando nelle aziende dei più bei brand del mondo”. E la maggioranza dei laureati si fermano a lavorare qua: un bell’ambiente, ottimi posti di lavoro, città e paesi accoglienti. E poi, si mangia anche bene”

Racconta ancora Pontremoli: oltre l’università, abbiamo investito anche sugli Its. A Fornovo arrivano duemila studenti all’anno, da tutta italia, per essere formati su cinque competenze: stampanti 3D, Cad, robotica, fibre di carbonio e macchine a controllo numerico”.

E gli investimenti? “Ci siamo tassati, le dieci aziende automotive e le altre cinquanta collegate, perché è nel nostro interesse investire e avere persone motivate, appassionate, qualificate”.

Ricerca, formazione, tecnologia, lavoro di qualità. Insomma, “competere nel mondo vuol dire cooperare in Italia per costruire i talenti del futuro”. E, appunto, sapere essere attrattivi verso le migliori energie intellettuali e imprenditoriali dal resto del mondo.

(foto Getty Images)

“I dazi ridisegnano la mappa del commercio globale”, scrive Il Sole24Ore (6 aprile) cercando di capire non solo la portata dello shock generale per le decisioni della Casa Bianca di Donald Trump e le ricadute del protezionismo Usa, ma anche le possibili mosse dei vari attori internazionali, sia sul piano delle necessarie trattative con gli Usa, sia su quello delle nuove relazioni possibili tra i giganti asiatici (Cina e India, innanzitutto), l’Europa, il Mercosur, due grandi nazioni americane come Canada e Messico, i paesi arabi e i più dinamici protagonisti di una ripresa dell’Africa. Terreni comunque difficili, infidi, scivolosi, tra tensioni e nuovi protagonismi nel clima difficile del Grande Disordine mondiale.

La speranza è che, messa da parte l’emotività, prevalga la saggezza di chi, come l’economista Nouriel Rubini, sostiene che “serve negoziare con l’America” perché “senza un’intesa la crescita globale andrà a picco”, ben sapendo che “i mercati finanziari hanno paura della guerra commerciale degli Usa” e che in una tale condizione di tensione, “l’Unione Europea, con più stimoli fiscali e una maggiore spesa per la difesa può evitare il peggio” (La Stampa, 6 aprile). Un’indicazione di saggezza che, purtroppo inascoltata, stava già nelle considerazioni del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta all’Assiom Forex di Torino del 15 febbraio: “In un contesto già segnato da tensioni geopolitiche, commerciali e belliche, la strategia Usa di utilizzare gli annunci sui dazi come leva negoziale per ridefinire i rapporti economici e politici con altre aree del mondo potrebbe sfuggire al controllo, generando effetti ben oltre quelli desiderati, aggravando i dissidi esistenti e aprendo nuove fratture”. Dunque, meglio trattare: “Soluzioni negoziali basate sulla cooperazione non solo rappresentano un’alternativa preferibile, ma sono necessarie per evitare una spirale di conflitto che minaccerebbe la stabilità globale”.

Servono, insomma, risposte lungimiranti e ad ampio raggio, fuori dall’escalation di dazi e controdazi, minacce e ritorsioni.

Al di là delle misure sul piano commerciale, comincia a farsi strada, in ambienti economici e accademici, una considerazione che riguarda la ricerca e la scienza e dunque lo sviluppo sostenibile di lungo periodo. In sintesi: la crescita economica e i migliori equilibri sociali, proprio nella stagione del primato della “economia della conoscenza”, sono fortemente influenzati dal capitale umano o, per dirla meglio, dalle capacità intellettuali e produttive delle persone. Gli Usa, con le grandi università, tra le migliori del mondo, e i centri di ricerca ricchi di solide risorse finanziarie, sono stati tradizionalmente quanto mai attrattivi. Adesso, però, il panorama sta cambiando. “Gli accademici americani fuggono dal Paese”, scrive Viviana Mazza sul Corriere della Sera (2 aprile) raccontando i tagli e i ridimensionamenti dei finanziamenti federali alle agenzie di ricerca pubblica e alle più prestigiose università (Harvard, Columbia, Penn).

Tensioni e polemiche giornalistiche a parte, vale la pena che l’Europa si ponga il problema di come incrementare le proprie capacità attrattive delle intelligenze di tanti giovani che adesso possano guardare alle università francesi e tedesche, inglesi e italiane, spagnole e olandesi e alle imprese europee. Varando un robusto sostegno ai programmi di formazione e ricerca e di accoglienza di “cervelli”, anche di ritorno. E usando sia la leva del finanziamento di programmi comuni (con un’intesa tra Ue e Regno Unito) sia le scelte di politiche attrattive per i giovani ricercatori, professori e studenti da tutto il mondo (stipendi, abitazioni, scuole e asili per i bambini, etc.). Un rientro agevolato delle migliaia di studiosi  europei che sono andati via. E una sollecitazione a chi proprio in Europa potrebbe voler studiare e lavorare.

Una strategia del genere potrebbe essere quanto mai opportuna proprio per l’Italia, anche per cercare di rallentare e poi invertire la “fuga record” dei nostri giovani all’estero: 352mila, nel decennio 2013- 2022, nelle classi d’età tra 25 e 34 anni (dati Istat su chi ha trasferito la residenza all’estero), con 132mila laureati tra loro. Il fenomeno cresce clamorosamente nel corso del tempo: 191mila sono gli italiani emigrati nel ‘24, il 20% in più rispetto all’anno precedente. E si incupisce dunque il quadro di un’Italia che vede aggravarsi l’“inverno demografico” (appena 370mila i bambini nati nel ‘24), conosce un crescente invecchiamento e subisce la fuga delle energie più giovani, qualificate, innovative. Un’ipoteca sul futuro produttivo ma anche culturale e civile.

Serve, dunque, “un nuovo patto per il futuro”, investendo sull’istruzione ma anche sulla qualità del lavoro e della vita, sostiene Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino ed ex presidente della Compagna di San Paolo (La Stampa, 6 aprile). E Carlo Rosa, amministratore delegato di Diasorin, società high tech nel settore farmaceutico, con forti presenze internazionali, aggiunge: “Possiamo riprenderci i nostri cervelli in fuga”. E già adesso “la Ue, con i programmi ERC (European Research Council) riconosce un extra bonus ai ricercatori e agli scienziati di rientro dagli Usa”. Si può fare di meglio e di più.

Serve, insomma, costruire buona politica, con intelligenza lungimirante e fantasia, andando oltre la pur indispensabile trattativa sui dazi. Rilanciare l’industria europea. Fare leva sulle nostre capacità produttive e culturali. “Tornare a ragionare sulle fabbriche e costruire un’autonomia europea dagli Usa rispetto alla digitalizzazione e alla decarbonizzazione legata all’energia”, sostiene Patrizio Bianchi, uno dei migliori economisti italiani (QN/ Il Resto del Carlino, 6 aprile). E come competere, con i colossi Usa? “Facendo i conti su quello che abbiamo già, come i centri di ricerca e i tecnopoli di Bologna, Trieste, Ispra, Bruxelles e Lussemburgo. Anche perché con i tagli alla ricerca imposti da Trump molti studiosi stanno pensando di lasciare gli Usa. Dobbiamo attirarli, invece di piangerci addosso”. E proprio a Bologna il nuovo centro di supercalcolo Leonardo può fare da tecnostruttura di alto livello europeo per le relazioni tra Artificial Intelligence, ricerca scientifica e competitività industriale.

Un buon esempio di riferimento, sull’attrattività e i progetti industriali ad alta tecnologia, arriva appunto dall’Emilia Romagna, realtà connotata da spiccata vocazione industriale, robusto dialogo tra imprese e pubbliche amministrazioni di Regione e Comuni, attive “multinazionali tascabili”, un forte legame con la sapienza manifatturiera del territorio e un capitale sociale che, nel corso del tempo, ha privilegiato i valori della collaborazione invece che le tensioni dello scontro con concorrenti e avversari. Ben sapendo cosa significhi davvero competizione, una parola che viene dal latino cum e petere, muoversi insieme verso un obiettivo comune.

“Nessuna azienda può pensare di essere competitiva se non rende competitivo il territorio in cui si trova”, sostiene infatti, saggiamente, Andrea Pontremoli, amministratore delegato di Dallara, una delle imprese automobilistiche high tech della Motor Valley emiliana, un’area in cui sono concentrate anche altre industrie di punta dell’automotive, da Ferrari a Lamborghini e poi ancora Maserati, Pagani, Ducati, Hass Formula Uno, Racing Bull e Marelli HP. Dieci campioni manifatturieri di rilievo internazionale. Con radici solide in una zona storicamente votata all’eccellenza meccanica. E ali per volare nell’universo internazionale. Animate da un forte spirito di concorrenza tra loro, ma anche capaci di collaborare con intelligenza lungimirante. E dunque di fare nascere la Motor University of Emilia Romagna, una sapiente struttura formativa che attrae giovani talentuosi da tutto il mondo.

Racconta Pontremoli, ospite del convegno di Assolombarda sulle strategie di crescita dell’area di Monza e Brianza, cuore manifatturiero della Grande Milano (QN/ Il Giorno, 2 aprile): “Siamo un ecosistema, grazie al rapporto tra le imprese del territorio e le quattro grandi università emiliane e romagnole. E abbiamo disegnato nove lauree magistrali, tutte in lingua inglese, in settori che, secondo noi, sarebbero stati il nostro futuro: race car design, supercar design, motorbike design, supercar production, veicoli elettrici, veicoli a guida autonoma. E quest’anno facciamo duecento laureati magistrali. Il 25% degli studenti arriva da fuori Europa, per studiare l’automotive del futuro lavorando nelle aziende dei più bei brand del mondo”. E la maggioranza dei laureati si fermano a lavorare qua: un bell’ambiente, ottimi posti di lavoro, città e paesi accoglienti. E poi, si mangia anche bene”

Racconta ancora Pontremoli: oltre l’università, abbiamo investito anche sugli Its. A Fornovo arrivano duemila studenti all’anno, da tutta italia, per essere formati su cinque competenze: stampanti 3D, Cad, robotica, fibre di carbonio e macchine a controllo numerico”.

E gli investimenti? “Ci siamo tassati, le dieci aziende automotive e le altre cinquanta collegate, perché è nel nostro interesse investire e avere persone motivate, appassionate, qualificate”.

Ricerca, formazione, tecnologia, lavoro di qualità. Insomma, “competere nel mondo vuol dire cooperare in Italia per costruire i talenti del futuro”. E, appunto, sapere essere attrattivi verso le migliori energie intellettuali e imprenditoriali dal resto del mondo.

(foto Getty Images)

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