La povertà educativa dell’Italia
(13 milioni di persone poco istruite)
e le scelte necessarie
per destinare il Recovery Fund alla scuola
Ci sono in Italia 13 milioni di persone con un basso livello di istruzione, appena la terza media al massimo, tra gli adulti dai 25 ai 64 anni. Sono il 39% della nostra popolazione in quella fascia d’età, addirittura il 20% di tutti gli adulti europei nella stessa condizione. E sono in difficoltà con il lavoro, soprattutto in stagioni intense di cambiamento verso l’economia digitale. Ma anche e soprattutto in crisi con la loro stessa condizione di cittadini: non sapere significa molto spesso non capire e dunque non essere in condizione di potere esercitare i propri diritti di decisione, scelta, critica. Le gravi carenze dell’istruzione pongono non solo una questione economica e sociale (la bassa produttività del lavoro, le difficoltà a reggere la competitività) ma anche e soprattutto una questione di democrazia.
Vale la pena ricordare la lezione di Piero Calamandrei, uno dei padri della nostra Costituzione: “Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale”. E ancora: “Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere”. Sviluppo e democrazia, benessere e partecipazione si tengono insieme.
Il tema delle pessime condizioni dell’istruzione nel nostro Paese è stato meritoriamente rilanciato pochi giorni fa con un grande titolo in prima pagina da “Il Sole24Ore” (“Bassa istruzione per 13 milioni di adulti”, 27 gennaio), dando conto di una lettera aperta al governo da parte degli esperti degli istituti di formazione, con una richiesta molto chiara: investire sulle conoscenze e le competenze, dunque sulla scuola e sulle attività di formazione continua, una parte consistente del Recovery Fund. E cioè fare bene, con progetti seri e ben costruiti, proprio ciò su cui la Ue, con quello stanziamento da oltre 200 miliardi, ci chiede di impegnarci: guardare alla Next Generation, ai giovani, cioè, e a una loro formazione qualificata.
Sulla scuola, proprio in questa drammatica e dolorosa stagione di pandemia da Covid 19 e di recessione, il governo Conte ha mostrato lacune evidentissime. Ha chiacchierato di banchi con le ruote per agevolare il distanziamento sociale, ma non ha saputo esprimere una politica seria e coerente. Ha subito scelte ondivaghe delle regioni sulle chiusure delle scuole. Ha dedicato più attenzione alla discussione sull’apertura o meno gli impianti sciistici o, adesso, sul Festival di Sanremo. Ma non ha elaborato una strategia per permettere agli studenti e ai professori di fare fronte al loro impegno: insegnare e imparare, studiare e capire. Né è venuto incontro ai bisogni di moltissimi ragazzi di poter avere comunque un sostegno digitale: l’11% delle famiglie non ha alcuna connessione a Internet (nel Mezzogiorno va molto peggio) e in parecchie case su un unico computer si concentrano le tensioni di lavoro e di studio tra genitori e figli. Tra i tanti mondi sociali messi in drammatica crisi dalla pandemia, la scuola vive una particolare, profondissima condizione di disagio, con conseguenze che i ragazzi e un po’ tutto il Paese pagherà nei prossimi anni.
La “didattica a distanza” supplisce alle carenze, ma in modo quando mai parziale. La “cronica povertà educativa” denunciata più volte dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha avuto, finora, risposte chiare in termini di scelte di investimenti e riforme.
Vale la pena tenere conto anche di altri dati. Se consideriamo infatti il bisogno di alfabetizzazione linguistica, numerica e digitale, la quota di popolazione adulta che dovrebbe aggiornare le proprie competenze è stimata tra il 50-60% del totale. Siamo infatti di fronte anche al fenomeno di un vero e proprio analfabetismo di ritorno, l’analfabetismo funzionale, che non consente di interagire con il mondo digitale. E l’Ocse documenta come quasi il 70% degli italiani sia sotto il “livello 3” nella comprensione sia di un testo scritto sia di nozioni matematiche. E quel “livello 3” è la soglia minima per vivere e lavorare nel mondo attuale.
E ancora: abbiamo pochi laureati, il 19,6% nella fascia d’età 25-64 anni, rispetto a una media europea del 33,2% (con una incidenza molto bassa delle lauree Stem, quelle scientifiche). E un altissimo livello di abbandono scolastico, con record nelle regioni del Sud.
La ricaduta, in termini di opportunità di lavoro, è evidente. Le imprese non trovano le persone qualificate che cercano, i giovani non riescono ad avere un’occupazione. Un circuito perverso che determina un bassissimo tasso di crescita dell’Italia e una profonda insoddisfazione sociale, con prospettive negative sulla tenuta del Paese nel complesso.
Anche per la formazione sul lavoro i dati sono allarmanti: sono il 24% degli italiani fa attività formativa, contro il 52% della media Ocse (e sulla qualità di questa formazione e sulla sua corrispondenza con i bisogni reali delle imprese le ombre sono molto forti).
Non studiamo, non ci formiamo, non cresciamo. Nell’epoca della “economia della conoscenza”, è un handicap gravissimo. Che aggrava le fratture e i divari sociali e priva i giovani delle speranze in un futuro migliore.
Commenta, su “Il Sole24Ore”, Alberto Orioli: “In questo deserto delle competenze e dei saperi il Paese declina e si impoverisce. Non solo di talenti, ma anche di conoscenze e di senso critico. E diventa un popolo di anime semplici e rozze, prede ideali del neo-conformismo social. E forse a qualcuno conviene così”.
Gli enti di formazione, giustamente, chiedono al governo di “puntare con forza a investire parte delle risorse del Recovery Fund sulla formazione continua non solo per affrontare il gap di competenze a sostegno dell’occupazione, ma anche per garantire la modernizzazione della pubblica amministrazione, la digitalizzazione dell’economia e il sistema di istruzione scolastica”, con lo scopo di realizzare “entro il 2025 l’obiettivo europeo del 50% di adulti che partecipano in attività formative almeno una volta ogni 12 mesi”.
La crisi infatti – insiste la lettera dei formatori al governo – insegna che “reagire all’emergenza e costruire soluzioni sostenibili per il futuro richiede capacità e risorse propriamente umane e in primo luogo tutte le competenze – di base, trasversali, sociali, scientifiche e imprenditoriali – necessarie per affrontare l’incertezza e creare opportunità dalle nuove tecnologie, dall’allargamento degli scambi internazionali, così come dal vasto patrimonio di beni culturali e naturali di cui l’Italia dispone”.
Ci sono in Italia 13 milioni di persone con un basso livello di istruzione, appena la terza media al massimo, tra gli adulti dai 25 ai 64 anni. Sono il 39% della nostra popolazione in quella fascia d’età, addirittura il 20% di tutti gli adulti europei nella stessa condizione. E sono in difficoltà con il lavoro, soprattutto in stagioni intense di cambiamento verso l’economia digitale. Ma anche e soprattutto in crisi con la loro stessa condizione di cittadini: non sapere significa molto spesso non capire e dunque non essere in condizione di potere esercitare i propri diritti di decisione, scelta, critica. Le gravi carenze dell’istruzione pongono non solo una questione economica e sociale (la bassa produttività del lavoro, le difficoltà a reggere la competitività) ma anche e soprattutto una questione di democrazia.
Vale la pena ricordare la lezione di Piero Calamandrei, uno dei padri della nostra Costituzione: “Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale”. E ancora: “Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere”. Sviluppo e democrazia, benessere e partecipazione si tengono insieme.
Il tema delle pessime condizioni dell’istruzione nel nostro Paese è stato meritoriamente rilanciato pochi giorni fa con un grande titolo in prima pagina da “Il Sole24Ore” (“Bassa istruzione per 13 milioni di adulti”, 27 gennaio), dando conto di una lettera aperta al governo da parte degli esperti degli istituti di formazione, con una richiesta molto chiara: investire sulle conoscenze e le competenze, dunque sulla scuola e sulle attività di formazione continua, una parte consistente del Recovery Fund. E cioè fare bene, con progetti seri e ben costruiti, proprio ciò su cui la Ue, con quello stanziamento da oltre 200 miliardi, ci chiede di impegnarci: guardare alla Next Generation, ai giovani, cioè, e a una loro formazione qualificata.
Sulla scuola, proprio in questa drammatica e dolorosa stagione di pandemia da Covid 19 e di recessione, il governo Conte ha mostrato lacune evidentissime. Ha chiacchierato di banchi con le ruote per agevolare il distanziamento sociale, ma non ha saputo esprimere una politica seria e coerente. Ha subito scelte ondivaghe delle regioni sulle chiusure delle scuole. Ha dedicato più attenzione alla discussione sull’apertura o meno gli impianti sciistici o, adesso, sul Festival di Sanremo. Ma non ha elaborato una strategia per permettere agli studenti e ai professori di fare fronte al loro impegno: insegnare e imparare, studiare e capire. Né è venuto incontro ai bisogni di moltissimi ragazzi di poter avere comunque un sostegno digitale: l’11% delle famiglie non ha alcuna connessione a Internet (nel Mezzogiorno va molto peggio) e in parecchie case su un unico computer si concentrano le tensioni di lavoro e di studio tra genitori e figli. Tra i tanti mondi sociali messi in drammatica crisi dalla pandemia, la scuola vive una particolare, profondissima condizione di disagio, con conseguenze che i ragazzi e un po’ tutto il Paese pagherà nei prossimi anni.
La “didattica a distanza” supplisce alle carenze, ma in modo quando mai parziale. La “cronica povertà educativa” denunciata più volte dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha avuto, finora, risposte chiare in termini di scelte di investimenti e riforme.
Vale la pena tenere conto anche di altri dati. Se consideriamo infatti il bisogno di alfabetizzazione linguistica, numerica e digitale, la quota di popolazione adulta che dovrebbe aggiornare le proprie competenze è stimata tra il 50-60% del totale. Siamo infatti di fronte anche al fenomeno di un vero e proprio analfabetismo di ritorno, l’analfabetismo funzionale, che non consente di interagire con il mondo digitale. E l’Ocse documenta come quasi il 70% degli italiani sia sotto il “livello 3” nella comprensione sia di un testo scritto sia di nozioni matematiche. E quel “livello 3” è la soglia minima per vivere e lavorare nel mondo attuale.
E ancora: abbiamo pochi laureati, il 19,6% nella fascia d’età 25-64 anni, rispetto a una media europea del 33,2% (con una incidenza molto bassa delle lauree Stem, quelle scientifiche). E un altissimo livello di abbandono scolastico, con record nelle regioni del Sud.
La ricaduta, in termini di opportunità di lavoro, è evidente. Le imprese non trovano le persone qualificate che cercano, i giovani non riescono ad avere un’occupazione. Un circuito perverso che determina un bassissimo tasso di crescita dell’Italia e una profonda insoddisfazione sociale, con prospettive negative sulla tenuta del Paese nel complesso.
Anche per la formazione sul lavoro i dati sono allarmanti: sono il 24% degli italiani fa attività formativa, contro il 52% della media Ocse (e sulla qualità di questa formazione e sulla sua corrispondenza con i bisogni reali delle imprese le ombre sono molto forti).
Non studiamo, non ci formiamo, non cresciamo. Nell’epoca della “economia della conoscenza”, è un handicap gravissimo. Che aggrava le fratture e i divari sociali e priva i giovani delle speranze in un futuro migliore.
Commenta, su “Il Sole24Ore”, Alberto Orioli: “In questo deserto delle competenze e dei saperi il Paese declina e si impoverisce. Non solo di talenti, ma anche di conoscenze e di senso critico. E diventa un popolo di anime semplici e rozze, prede ideali del neo-conformismo social. E forse a qualcuno conviene così”.
Gli enti di formazione, giustamente, chiedono al governo di “puntare con forza a investire parte delle risorse del Recovery Fund sulla formazione continua non solo per affrontare il gap di competenze a sostegno dell’occupazione, ma anche per garantire la modernizzazione della pubblica amministrazione, la digitalizzazione dell’economia e il sistema di istruzione scolastica”, con lo scopo di realizzare “entro il 2025 l’obiettivo europeo del 50% di adulti che partecipano in attività formative almeno una volta ogni 12 mesi”.
La crisi infatti – insiste la lettera dei formatori al governo – insegna che “reagire all’emergenza e costruire soluzioni sostenibili per il futuro richiede capacità e risorse propriamente umane e in primo luogo tutte le competenze – di base, trasversali, sociali, scientifiche e imprenditoriali – necessarie per affrontare l’incertezza e creare opportunità dalle nuove tecnologie, dall’allargamento degli scambi internazionali, così come dal vasto patrimonio di beni culturali e naturali di cui l’Italia dispone”.