Milano ha “i numeri” per costruire politiche di sviluppo: a confronto con l’Europa
Ragionare su dati e fatti. Costruire politiche documentate. Ed essere capaci d’un “discorso pubblico” ben informato, secondo la dialettica democratica critica-proposta. Sta qui la sfida dell’”Osservatorio Milano”, uno strumento di analisi e misurazione della metropoli, a paragone con analoghe altre aree europee, Monaco e Stoccarda, Barcellona e Lione.
Realizzato da Assolombarda in stretta collaborazione con il Comune di Milano e con il contributo attivo di una serie di centri studi (tra gli altri, Banca d’Italia, Camera di Commercio, Intesa San Paolo, Fondazione Ambrosianeum, Confcommercio, ma anche Google e Mastercard) e presentato il 3 maggio, lo “Scoreboard” misura attrattività, reputazione e competitività di Milano, usando 214 indicatori diversi (un centinaio originali) su redditi, lavoro, istruzione, investimenti, imprese, consumi, salute, ambiente, traffico (anche del bike sharing, per esempio), abitazioni, efficienza della pubblica amministrazione, cultura e tempo libero, etc. Per raccontare, nel tempo, come cambia Milano, guardando sia al resto d’Italia che al cuore più dinamico dell’Europa. Dati e fatti, appunto. Che documentano come oggi Milano, in una delle stagioni migliori della sua storia, vanti un primato internazionale per reputazione, forte di eccellente offerta culturale e d’iniziative di qualità per moda e design, e sia al top per qualità dell’offerta universitaria, ma resti ancora indietro per innovazione, ricerca, occupazione giovanile.
Numeri importanti, per impostare policy pubbliche, iniziative di governo del territorio, strategie di crescita aziendale, programmi per un futuro migliore. E strumenti via via aggiornati per una “conoscenza azionabile”, per usare la pertinente definizione di Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda. Conoscere per decidere. Disegnare un futuro con competenza. Un paradigma di buona politica che da Milano può fornire utili indicazioni al governo italiano ma anche a Bruxelles.
Ci sono due considerazioni da fare. La prima, generale, riguarda qualità e responsabilità delle classi dirigenti. La seconda, i meccanismi di sviluppo di Milano come metropoli europea in grado di dare un impulso decisivo a tutta la crescita italiana.
La classe dirigente, innanzitutto. Viviamo in tempi di “asinocrazia”, per usare la definizione tagliente di Giovanni Sartori, maestro di studi politici, gran liberale, morto poche settimane fa (una critica fondata non sul disprezzo della politica, tutt’altro, ma proprio sull’insofferenza per il degrado della buona politica democratica per carenze di competenze e capacità d’ascolto, d’indirizzo, di governo). O anche in condizioni di “mediocrazia”, per dirla con le analisi di Alain Deneault, filosofo politico canadese (“Una qualità modesta…uno stato medio tendente al banale, all’incolore… ma innalzato al rango d’autorità”).
Sia la lezione di Sartori che l’analisi di Deneault tornano in mente leggendo le pagine di uno dei libri più interessanti appena usciti, “La fine del dibattito pubblico” di Mark Thompson, edito da Feltrinelli, ovvero “come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia”. Thompson conosce bene le relazioni tra linguaggio e potere: è stato direttore generale della Bbc a Londra, adesso è amministratore delegato del “New York Times”. Sa che la “retorica” è in origine arte nobile dell’uso della parola e che il “discorso pubblico”, strumento cardine della buona politica democratica, deve avere la forza del ragionamento e delle emozioni e deve saper essere ascoltato con capacità critiche, dialettiche. Racconta che la democrazia è una forma, un insieme di parole dense, significanti. Ma oggi proprio la parola è in crisi, perché banalizzata o inquinata dall’uso delle fake news, delle falsificazioni, da una propaganda sbrigativa che fa perno sulle emozioni più radicali e viene velocemente amplificata, senza critica competente, dai media digitali. Si crea un cortocircuito di disinformazione. Le istituzioni liberali, gli organi d’informazione di qualità e la politica ne soffrono. Si allarga lo spazio di poteri irresponsabili e spesso incompetenti. Abili nell’arte della propaganda. Il contrario della democrazia.
Ragionare su dati e fatti è un’attività che attiene direttamente all’impegno di ricostruire affidabilità di classi dirigenti, condizioni di fiducia, dunque credibilità della democrazia stessa. Conoscere e interpretare i numeri di quel che c’è. Misurare i cambiamenti. Non indulgere dunque alla propaganda. Ma “fare i conti” e “dare conto”. Democrazia trasparente ed efficace, appunto. Una scelta coraggiosa. Fondata su competenza, concretezza, responsabilità. Milano può avere ruolo esemplare.
Che Milano valorizzare e fare crescere, dunque? Una Milano “competitiva ma anche inclusiva, perché solo tranquillità sociale e inclusione garantiscono lo sviluppo”, sostiene il sindaco Beppe Sala, che sull’attrattività della metropoli gioca molte delle sue carte e che dichiara grande fiducia nell’”Osservatorio Milano” di cui stiamo parlando. “Le attese dei milanesi – aggiunge – sono alte e c’è gran voglia di fare. Non dobbiamo frustrare la volontà e il coraggio dei nostri cittadini”.
Ci sono “specializzazioni” di Milano, ribadite dall’Osservatorio, su cui insistere: scienze della vita, industria agroalimentare, manifattura 4.0 nel contesto di una grande trasformazione digitale dell’industria e dei servizi, finanza, sinergie tra arte, design e cultura. Il capitale umano è il crescita. Il capitale sociale si rafforza. Milano, è vero, è città difficile. Ma oggi ha tutti “i numeri” per potere costruire politiche di sviluppo. Imprese. Iniziative solidali. I “numeri”, sono la chiave della sua buona politica.
Ragionare su dati e fatti. Costruire politiche documentate. Ed essere capaci d’un “discorso pubblico” ben informato, secondo la dialettica democratica critica-proposta. Sta qui la sfida dell’”Osservatorio Milano”, uno strumento di analisi e misurazione della metropoli, a paragone con analoghe altre aree europee, Monaco e Stoccarda, Barcellona e Lione.
Realizzato da Assolombarda in stretta collaborazione con il Comune di Milano e con il contributo attivo di una serie di centri studi (tra gli altri, Banca d’Italia, Camera di Commercio, Intesa San Paolo, Fondazione Ambrosianeum, Confcommercio, ma anche Google e Mastercard) e presentato il 3 maggio, lo “Scoreboard” misura attrattività, reputazione e competitività di Milano, usando 214 indicatori diversi (un centinaio originali) su redditi, lavoro, istruzione, investimenti, imprese, consumi, salute, ambiente, traffico (anche del bike sharing, per esempio), abitazioni, efficienza della pubblica amministrazione, cultura e tempo libero, etc. Per raccontare, nel tempo, come cambia Milano, guardando sia al resto d’Italia che al cuore più dinamico dell’Europa. Dati e fatti, appunto. Che documentano come oggi Milano, in una delle stagioni migliori della sua storia, vanti un primato internazionale per reputazione, forte di eccellente offerta culturale e d’iniziative di qualità per moda e design, e sia al top per qualità dell’offerta universitaria, ma resti ancora indietro per innovazione, ricerca, occupazione giovanile.
Numeri importanti, per impostare policy pubbliche, iniziative di governo del territorio, strategie di crescita aziendale, programmi per un futuro migliore. E strumenti via via aggiornati per una “conoscenza azionabile”, per usare la pertinente definizione di Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda. Conoscere per decidere. Disegnare un futuro con competenza. Un paradigma di buona politica che da Milano può fornire utili indicazioni al governo italiano ma anche a Bruxelles.
Ci sono due considerazioni da fare. La prima, generale, riguarda qualità e responsabilità delle classi dirigenti. La seconda, i meccanismi di sviluppo di Milano come metropoli europea in grado di dare un impulso decisivo a tutta la crescita italiana.
La classe dirigente, innanzitutto. Viviamo in tempi di “asinocrazia”, per usare la definizione tagliente di Giovanni Sartori, maestro di studi politici, gran liberale, morto poche settimane fa (una critica fondata non sul disprezzo della politica, tutt’altro, ma proprio sull’insofferenza per il degrado della buona politica democratica per carenze di competenze e capacità d’ascolto, d’indirizzo, di governo). O anche in condizioni di “mediocrazia”, per dirla con le analisi di Alain Deneault, filosofo politico canadese (“Una qualità modesta…uno stato medio tendente al banale, all’incolore… ma innalzato al rango d’autorità”).
Sia la lezione di Sartori che l’analisi di Deneault tornano in mente leggendo le pagine di uno dei libri più interessanti appena usciti, “La fine del dibattito pubblico” di Mark Thompson, edito da Feltrinelli, ovvero “come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia”. Thompson conosce bene le relazioni tra linguaggio e potere: è stato direttore generale della Bbc a Londra, adesso è amministratore delegato del “New York Times”. Sa che la “retorica” è in origine arte nobile dell’uso della parola e che il “discorso pubblico”, strumento cardine della buona politica democratica, deve avere la forza del ragionamento e delle emozioni e deve saper essere ascoltato con capacità critiche, dialettiche. Racconta che la democrazia è una forma, un insieme di parole dense, significanti. Ma oggi proprio la parola è in crisi, perché banalizzata o inquinata dall’uso delle fake news, delle falsificazioni, da una propaganda sbrigativa che fa perno sulle emozioni più radicali e viene velocemente amplificata, senza critica competente, dai media digitali. Si crea un cortocircuito di disinformazione. Le istituzioni liberali, gli organi d’informazione di qualità e la politica ne soffrono. Si allarga lo spazio di poteri irresponsabili e spesso incompetenti. Abili nell’arte della propaganda. Il contrario della democrazia.
Ragionare su dati e fatti è un’attività che attiene direttamente all’impegno di ricostruire affidabilità di classi dirigenti, condizioni di fiducia, dunque credibilità della democrazia stessa. Conoscere e interpretare i numeri di quel che c’è. Misurare i cambiamenti. Non indulgere dunque alla propaganda. Ma “fare i conti” e “dare conto”. Democrazia trasparente ed efficace, appunto. Una scelta coraggiosa. Fondata su competenza, concretezza, responsabilità. Milano può avere ruolo esemplare.
Che Milano valorizzare e fare crescere, dunque? Una Milano “competitiva ma anche inclusiva, perché solo tranquillità sociale e inclusione garantiscono lo sviluppo”, sostiene il sindaco Beppe Sala, che sull’attrattività della metropoli gioca molte delle sue carte e che dichiara grande fiducia nell’”Osservatorio Milano” di cui stiamo parlando. “Le attese dei milanesi – aggiunge – sono alte e c’è gran voglia di fare. Non dobbiamo frustrare la volontà e il coraggio dei nostri cittadini”.
Ci sono “specializzazioni” di Milano, ribadite dall’Osservatorio, su cui insistere: scienze della vita, industria agroalimentare, manifattura 4.0 nel contesto di una grande trasformazione digitale dell’industria e dei servizi, finanza, sinergie tra arte, design e cultura. Il capitale umano è il crescita. Il capitale sociale si rafforza. Milano, è vero, è città difficile. Ma oggi ha tutti “i numeri” per potere costruire politiche di sviluppo. Imprese. Iniziative solidali. I “numeri”, sono la chiave della sua buona politica.