Buona reputazione, l’indice Top 100 premia sei imprese italiane
Godono di buona reputazione nel mondo, alcune delle principali imprese italiane. Nella nuova classifica 2014 del Reputation Institute, tra le “Top 100”, ce ne sono sei: Ferrero (al 34° posto) e poi Armani (44°), Pirelli (47°), Lavazza (60°), Barilla (73°) e Benetton (76°). Sono tante, sei, considerato il fatto che la classifica è compilata tenendo conto di 15 paesi. E sono, vale la pena sottolineare, sei imprese manifatturiere, simboli dell’eccellenza italiana, di quella nostra attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo”, per riprendere la pertinente definizione di Carlo Maria Cipolla, grande storico dell’economia: l’industria agro-alimentare, innanzitutto, ma anche il lusso e l’abbigliamento e la gomma e l’automotive, settore in cui noi italiani continuiamo ad avere una solida reputazione internazionale.
Nella classifica internazionale, al primo posto c’è Google (a quanto pare, poco toccata dalle accuse che vengono dalla Ue, sul suo “eccesso di potere” e ben difesa dalla grande politica e dall’opinione pubblica Usa). Poi, ecco Microsoft e Walt Disney. Apple è quinta, dopo l’europea BMW. Seguono Lego, Volkswagen, Intel, Rolex e Daimler. Internet company, insomma. E automobili, al centro del giudizio positivo. Società leader di mercato, a livello internazionale. E solidissime sull’immagine. Reputazione e business camminano bene insieme, commentano gli osservatori.
Cosa misura il Reputation Institute? Il capitale di “stima, fiducia, ammirazione e rispetto” accumulato nel corso degli anni. E si aggiunge: “Chi sei è più importante del ‘cosa fai’”. Dunque, spazio ai cosiddetti “intangibles”, i valori intangibili che sono il prodotto della buona cultura d’impresa, d’una storia di cui essere fieri, d’una attualità intessuta di “responsabilità sociale d’impresa”, empatia con il pubblico, qualità, sostenibilità, orgoglio d’appartenenza da parte dei propri dipendenti, ma anche orgoglio di relazione, per tutti gli stakeholders. Identità aziendali forti, chiare, ben raccontate e percepite. Un patrimonio solido. Da non disperdere, ma da incrementare. Nella stagione della cosiddetta “economia della conoscenza” e della radicale ridiscussione dei paradigmi della crescita, della produzione e del consumo, gli “intangibles” che riflettono valori (di comportamento e posizione, ma anche culturali, estetici e, perché no? morali) si traducono in valore economico (determinano un “premio”, da parte degli investitori internazionali, per le aziende quotate). E viceversa. Una virtuosa sintonia.
Godono di buona reputazione nel mondo, alcune delle principali imprese italiane. Nella nuova classifica 2014 del Reputation Institute, tra le “Top 100”, ce ne sono sei: Ferrero (al 34° posto) e poi Armani (44°), Pirelli (47°), Lavazza (60°), Barilla (73°) e Benetton (76°). Sono tante, sei, considerato il fatto che la classifica è compilata tenendo conto di 15 paesi. E sono, vale la pena sottolineare, sei imprese manifatturiere, simboli dell’eccellenza italiana, di quella nostra attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo”, per riprendere la pertinente definizione di Carlo Maria Cipolla, grande storico dell’economia: l’industria agro-alimentare, innanzitutto, ma anche il lusso e l’abbigliamento e la gomma e l’automotive, settore in cui noi italiani continuiamo ad avere una solida reputazione internazionale.
Nella classifica internazionale, al primo posto c’è Google (a quanto pare, poco toccata dalle accuse che vengono dalla Ue, sul suo “eccesso di potere” e ben difesa dalla grande politica e dall’opinione pubblica Usa). Poi, ecco Microsoft e Walt Disney. Apple è quinta, dopo l’europea BMW. Seguono Lego, Volkswagen, Intel, Rolex e Daimler. Internet company, insomma. E automobili, al centro del giudizio positivo. Società leader di mercato, a livello internazionale. E solidissime sull’immagine. Reputazione e business camminano bene insieme, commentano gli osservatori.
Cosa misura il Reputation Institute? Il capitale di “stima, fiducia, ammirazione e rispetto” accumulato nel corso degli anni. E si aggiunge: “Chi sei è più importante del ‘cosa fai’”. Dunque, spazio ai cosiddetti “intangibles”, i valori intangibili che sono il prodotto della buona cultura d’impresa, d’una storia di cui essere fieri, d’una attualità intessuta di “responsabilità sociale d’impresa”, empatia con il pubblico, qualità, sostenibilità, orgoglio d’appartenenza da parte dei propri dipendenti, ma anche orgoglio di relazione, per tutti gli stakeholders. Identità aziendali forti, chiare, ben raccontate e percepite. Un patrimonio solido. Da non disperdere, ma da incrementare. Nella stagione della cosiddetta “economia della conoscenza” e della radicale ridiscussione dei paradigmi della crescita, della produzione e del consumo, gli “intangibles” che riflettono valori (di comportamento e posizione, ma anche culturali, estetici e, perché no? morali) si traducono in valore economico (determinano un “premio”, da parte degli investitori internazionali, per le aziende quotate). E viceversa. Una virtuosa sintonia.