Nuove generazioni tra crisi di fiducia, disagio sociale e scommesse positive del digital manufacturing
La questione è il disagio delle giovani generazioni, con le preoccupazioni su lavoro, redditi, futuro. La risposta può essere trovata nel rilancio dell’industria, nelle neo-fabbriche, nell’innovazione della manifattura del miglior made in Italy, nelle prospettive di Industry4.0? Sfida difficile. Ma necessaria.
Per capire meglio, cominciamo da alcuni dati d’attualità, tra i tanti che oramai da tempo documentano una grave frattura generazionale e una crescente crisi di fiducia e di prospettive. Il primo è il dato elettorale, sul recente referendum che ha bocciato la riforma costituzionale voluta del governo Renzi: hanno votato “no” il 68% dei giovani elettori, sotto i 35 anni (la media nazionale è stata, com’è noto, del 59%) e si sono astenuti il 38% (dato generale: 32%). Nel Mezzogiorno, roccaforte del “no” (con le punte superiori al 70% in Sicilia e in Sardegna) la percentuale del voto negativo giovanile è stata ancora più alta. Al di là dei giudizi di merito sulla riforma, insomma, il disagio sociale e generazionale e la voglia diffusa di protesta hanno avuto una funzione determinante. Da ascoltare attentamente. E cui dare, finalmente, risposte di lungo periodo, di prospettiva, al di là di aiuti assistenziali e finanziamenti a pioggia (il “bonus” per acquisti culturali…).
Il Jobs Act ha cominciato a riformare il mercato del lavoro, imponendo uno stop a una diffusa condizione di precarietà. Riforma parziale, comunque. Da mettere meglio a punto. E da correggere in aspetti (i voucher) che hanno fatto ricomparire in altra forma quell’incertezza di mestiere e futuro che le giovani generazioni continuano ad accusare. C’è “una bolla dell’occupazione a bassa produttività”, conferma il recente Rapporto Censis (“la Repubblica”, 3 dicembre), fatta da “lavoretti” e impieghi a tempo, poco qualificati, a dispetto dei titoli di studio raggiunti: il “limbo” di un “lavoro quasi-regolare”, una condizione frustrante, beffarda. E la disoccupazione giovanile resta comunque pur sempre alta, al 37,5% (Istat, terzo trimestre 2016, in aumento di un punto sul trimestre precedente). Se, inoltre, si considera il lungo periodo, vent’anni fa, si vede come nella fascia d’età 25/34 anni gli occupati sono diminuiti di due milioni, mentre tra gli over 50 sono cresciuti di quasi un milione e mezzo. L’Italia non è un paese per giovani, insomma. E continua a giocare contro il suo futuro.
Un fatto è certo: le nuove generazioni guardano alla politica, ai partiti, alle istituzioni, al governo, con occhi molto critici e severi (la Rete ne amplifica disagi e proteste, con tutte le approssimazioni e le semplificazioni tipiche del web). E parecchi, oramai da tempo, stanno “votando con i piedi”, andando cioè via dall’Italia, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita (100mila, nel solo 2015, non solo dalla regioni del Sud ma anche dalla ricca e dinamica Lombardia, verso Gran Bretagna, Germania, Usa soprattutto: parecchi con un buon titolo di studio in tasca, tutti comunque intraprendenti e determinati).
C’è un vero e proprio muro generazionale, insiste il Rapporto Censis, che pesa sulle prospettive di sviluppo dell’intero Paese. Con un “ko economico dei millennials”, testimoniato dal crescente divario di redditi e di aspettative : “Oggi i millennials hanno un reddito inferiore del 15,1% rispetto alla media dei cittadini, mentre le persone di 35 anni e oltre ne hanno uno superiore alla media dell’1,5%. Considerando la ricchezza familiare, i divari sono pari a -41,1% rispetto alla media della popolazione nel caso dei giovani, mentre gli ultra 65enni registrano un valore superiore del 5,2%”. E’, appunto per i giovani, una condizione nettamente peggiore di quella che avevano all’epoca i loro genitori. L’ascensore sociale s’è bloccato, la frattura generazionale s’è aggravata: “Nel confronto con 25 anni fa, rispetto ai loro coetanei di allora, gli attuali giovani hanno un reddito inferiore del 26,5% (periodo 1991-2014), mentre per la popolazione complessiva il reddito si è ridotto solo dell’8,3% e per gli over 65 è invece aumentato del 24,3%. La ricchezza familiare degli attuali millennials è inferiore del 4,3% rispetto a quella dei loro coetanei di 25 anni fa, mentre per gli italiani nell’insieme il valore attuale è maggiore del 32,3% e per gli anziani addirittura dell’84,7%”.
C’è ancora un altro dati, su cui riflettere: “Il divario tra i giovani e il resto dei cittadini si è ampliato, poiché 25 anni fa i redditi dei giovani erano superiori alla media della popolazione del 5,9%, mentre oggi sono inferiori del 15,1%. La ricchezza familiare dei giovani di allora era inferiore del 18,5% rispetto alla media, mentre oggi lo è del 41,1%”.
Vengono da lontano, è vero, questi divari. E le radici di tutto possono essere trovate nella metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando esplode il debito pubblico e i padri di allora scaricano sulle generazioni future il costo dei loro redditi e dei loro consumi, del loro benessere. Ma ben poco s’è fatto, nel tempo, per affrontare il problema, ridurre drasticamente il debito pubblico (e dunque l’ipoteca sul futuro nelle nuove generazioni), rimettere in moto l’ascensore sociale, scrivere un nuovo patto generazionale, con un migliore orizzonte di futuro. Oggi, tutti ne paghiamo le conseguenze.
C’è un altro dato inquietante: quello dei neet (not in education, employment or training: i giovani che non studiano e non lavorano). Sono oltre 2,3 milioni, in Italia, sui 13 milioni in tutti i paesi Ue. E il loro numero tende ad aumentare, dal 19% degli “under 30” nel 2008 al 25% del 2015 (in Lombardia sono il 18,4%, in Campania il 36,4% e in Sicilia il 39,7%, il dato peggiore). La media europea, nello stesso periodo, è passata dal 13 al 15%. I giovani italiani, insomma, stanno sempre peggio della media dei loro coetanei in Europa.
Il governo Renzi ha varato un piano, per recuperare tali e tante energie, “Garanzia Giovani”, per favorirne studio e lavoro. Marginali, i risultati, naturalmente, in assenza di un più forte e determinato sviluppo dell’intero sistema Paese.
Ecco il punto: il motore dello sviluppo. Ancora una volta l’industria, in un’Italia che, nonostante la crisi, resta il secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania, è tra i primi cinque paesi del mondo per valore aggiunto manifatturiero e, nelle regioni industriali del Nord (tra Lombardia e Piemonte, Emilia e Nord Est) ha un’incidenza dell’industria sul Pil superiore al 20%, superando già adesso gli obiettivi posti per il 2020 dalla Commissione di Bruxelles a tutti i paesi Ue. Un’industria dinamica, parte della quale sta già affrontando la radicale trasformazione del digital manufacturing, i processi del cosiddetto Internet of things e dei big data applicati alla manifattura di qualità.
In questa trasformazione, servono nuove competenze, nuove professionalità. Un’occasione, appunto, per le nuove generazioni, per quei millennials che, nativi digitali o quasi, possono ben intepretare, gestire, adattare i processi produttivi alle spinte dell’innovazione.
Nel “Patto per la fabbrica” stretto da Confindustria e dai tre sindacati Cgil, Cisl e Uil a metà luglio ed entrato nel vivo degli incontri operativi nei giorni scorsi (“IlSole24Ore”, 8 dicembre) innovazione, ricerca, trasferimento tecnologo e, appunto, formazione sono punti chiave. Partendo già dalle scuole (“Alternanza scuola-lavoro 4.0”, si dice in slogan in Confindustria) e dall’università. E insistendo sulle qualità del capitale umano, sulle soft skill, sulle attitudini particolari delle nuove generazioni a fare i conti disinvoltamente con tutte le dimensioni hi tech. Ce n’è l’eco anche nel nuovo importante contratto di lavoro dei metalmeccanici, che proprio alla formazione dedica pagine fondamentali.
Le nuove generazioni riscopriranno così la fabbrica, saranno attori di processi produttivi segnati dalla relazione “tra il tornio e il web”? E’ la vera sfida italiana. Una sfida che è possibile affrontare bene e vincere.
Se ne ritrova l’eco anche in un breve film, che ha vinto un concorso lanciato da Assolombarda e Fondazione Pubblicità Progresso tra giovani cineasti delle scuole milanesi, per uno spot sulla meccatronica: nel filmato vincitore, si parte dal disegno d’una bambina regalato al padre operaio e si finisce con una giovane ingegnere che sfiora affettuosamente il braccio d’un anziano tecnico che, accanto ai pannelli di controllo della macchina digitale, ha appeso, appunto, quel disegno. Cambia, la fabbrica. Restano centrali, le persone. Si aprono nuovi spazi, per i giovani. Un buon sapore di memoria e futuro.
La questione è il disagio delle giovani generazioni, con le preoccupazioni su lavoro, redditi, futuro. La risposta può essere trovata nel rilancio dell’industria, nelle neo-fabbriche, nell’innovazione della manifattura del miglior made in Italy, nelle prospettive di Industry4.0? Sfida difficile. Ma necessaria.
Per capire meglio, cominciamo da alcuni dati d’attualità, tra i tanti che oramai da tempo documentano una grave frattura generazionale e una crescente crisi di fiducia e di prospettive. Il primo è il dato elettorale, sul recente referendum che ha bocciato la riforma costituzionale voluta del governo Renzi: hanno votato “no” il 68% dei giovani elettori, sotto i 35 anni (la media nazionale è stata, com’è noto, del 59%) e si sono astenuti il 38% (dato generale: 32%). Nel Mezzogiorno, roccaforte del “no” (con le punte superiori al 70% in Sicilia e in Sardegna) la percentuale del voto negativo giovanile è stata ancora più alta. Al di là dei giudizi di merito sulla riforma, insomma, il disagio sociale e generazionale e la voglia diffusa di protesta hanno avuto una funzione determinante. Da ascoltare attentamente. E cui dare, finalmente, risposte di lungo periodo, di prospettiva, al di là di aiuti assistenziali e finanziamenti a pioggia (il “bonus” per acquisti culturali…).
Il Jobs Act ha cominciato a riformare il mercato del lavoro, imponendo uno stop a una diffusa condizione di precarietà. Riforma parziale, comunque. Da mettere meglio a punto. E da correggere in aspetti (i voucher) che hanno fatto ricomparire in altra forma quell’incertezza di mestiere e futuro che le giovani generazioni continuano ad accusare. C’è “una bolla dell’occupazione a bassa produttività”, conferma il recente Rapporto Censis (“la Repubblica”, 3 dicembre), fatta da “lavoretti” e impieghi a tempo, poco qualificati, a dispetto dei titoli di studio raggiunti: il “limbo” di un “lavoro quasi-regolare”, una condizione frustrante, beffarda. E la disoccupazione giovanile resta comunque pur sempre alta, al 37,5% (Istat, terzo trimestre 2016, in aumento di un punto sul trimestre precedente). Se, inoltre, si considera il lungo periodo, vent’anni fa, si vede come nella fascia d’età 25/34 anni gli occupati sono diminuiti di due milioni, mentre tra gli over 50 sono cresciuti di quasi un milione e mezzo. L’Italia non è un paese per giovani, insomma. E continua a giocare contro il suo futuro.
Un fatto è certo: le nuove generazioni guardano alla politica, ai partiti, alle istituzioni, al governo, con occhi molto critici e severi (la Rete ne amplifica disagi e proteste, con tutte le approssimazioni e le semplificazioni tipiche del web). E parecchi, oramai da tempo, stanno “votando con i piedi”, andando cioè via dall’Italia, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita (100mila, nel solo 2015, non solo dalla regioni del Sud ma anche dalla ricca e dinamica Lombardia, verso Gran Bretagna, Germania, Usa soprattutto: parecchi con un buon titolo di studio in tasca, tutti comunque intraprendenti e determinati).
C’è un vero e proprio muro generazionale, insiste il Rapporto Censis, che pesa sulle prospettive di sviluppo dell’intero Paese. Con un “ko economico dei millennials”, testimoniato dal crescente divario di redditi e di aspettative : “Oggi i millennials hanno un reddito inferiore del 15,1% rispetto alla media dei cittadini, mentre le persone di 35 anni e oltre ne hanno uno superiore alla media dell’1,5%. Considerando la ricchezza familiare, i divari sono pari a -41,1% rispetto alla media della popolazione nel caso dei giovani, mentre gli ultra 65enni registrano un valore superiore del 5,2%”. E’, appunto per i giovani, una condizione nettamente peggiore di quella che avevano all’epoca i loro genitori. L’ascensore sociale s’è bloccato, la frattura generazionale s’è aggravata: “Nel confronto con 25 anni fa, rispetto ai loro coetanei di allora, gli attuali giovani hanno un reddito inferiore del 26,5% (periodo 1991-2014), mentre per la popolazione complessiva il reddito si è ridotto solo dell’8,3% e per gli over 65 è invece aumentato del 24,3%. La ricchezza familiare degli attuali millennials è inferiore del 4,3% rispetto a quella dei loro coetanei di 25 anni fa, mentre per gli italiani nell’insieme il valore attuale è maggiore del 32,3% e per gli anziani addirittura dell’84,7%”.
C’è ancora un altro dati, su cui riflettere: “Il divario tra i giovani e il resto dei cittadini si è ampliato, poiché 25 anni fa i redditi dei giovani erano superiori alla media della popolazione del 5,9%, mentre oggi sono inferiori del 15,1%. La ricchezza familiare dei giovani di allora era inferiore del 18,5% rispetto alla media, mentre oggi lo è del 41,1%”.
Vengono da lontano, è vero, questi divari. E le radici di tutto possono essere trovate nella metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando esplode il debito pubblico e i padri di allora scaricano sulle generazioni future il costo dei loro redditi e dei loro consumi, del loro benessere. Ma ben poco s’è fatto, nel tempo, per affrontare il problema, ridurre drasticamente il debito pubblico (e dunque l’ipoteca sul futuro nelle nuove generazioni), rimettere in moto l’ascensore sociale, scrivere un nuovo patto generazionale, con un migliore orizzonte di futuro. Oggi, tutti ne paghiamo le conseguenze.
C’è un altro dato inquietante: quello dei neet (not in education, employment or training: i giovani che non studiano e non lavorano). Sono oltre 2,3 milioni, in Italia, sui 13 milioni in tutti i paesi Ue. E il loro numero tende ad aumentare, dal 19% degli “under 30” nel 2008 al 25% del 2015 (in Lombardia sono il 18,4%, in Campania il 36,4% e in Sicilia il 39,7%, il dato peggiore). La media europea, nello stesso periodo, è passata dal 13 al 15%. I giovani italiani, insomma, stanno sempre peggio della media dei loro coetanei in Europa.
Il governo Renzi ha varato un piano, per recuperare tali e tante energie, “Garanzia Giovani”, per favorirne studio e lavoro. Marginali, i risultati, naturalmente, in assenza di un più forte e determinato sviluppo dell’intero sistema Paese.
Ecco il punto: il motore dello sviluppo. Ancora una volta l’industria, in un’Italia che, nonostante la crisi, resta il secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania, è tra i primi cinque paesi del mondo per valore aggiunto manifatturiero e, nelle regioni industriali del Nord (tra Lombardia e Piemonte, Emilia e Nord Est) ha un’incidenza dell’industria sul Pil superiore al 20%, superando già adesso gli obiettivi posti per il 2020 dalla Commissione di Bruxelles a tutti i paesi Ue. Un’industria dinamica, parte della quale sta già affrontando la radicale trasformazione del digital manufacturing, i processi del cosiddetto Internet of things e dei big data applicati alla manifattura di qualità.
In questa trasformazione, servono nuove competenze, nuove professionalità. Un’occasione, appunto, per le nuove generazioni, per quei millennials che, nativi digitali o quasi, possono ben intepretare, gestire, adattare i processi produttivi alle spinte dell’innovazione.
Nel “Patto per la fabbrica” stretto da Confindustria e dai tre sindacati Cgil, Cisl e Uil a metà luglio ed entrato nel vivo degli incontri operativi nei giorni scorsi (“IlSole24Ore”, 8 dicembre) innovazione, ricerca, trasferimento tecnologo e, appunto, formazione sono punti chiave. Partendo già dalle scuole (“Alternanza scuola-lavoro 4.0”, si dice in slogan in Confindustria) e dall’università. E insistendo sulle qualità del capitale umano, sulle soft skill, sulle attitudini particolari delle nuove generazioni a fare i conti disinvoltamente con tutte le dimensioni hi tech. Ce n’è l’eco anche nel nuovo importante contratto di lavoro dei metalmeccanici, che proprio alla formazione dedica pagine fondamentali.
Le nuove generazioni riscopriranno così la fabbrica, saranno attori di processi produttivi segnati dalla relazione “tra il tornio e il web”? E’ la vera sfida italiana. Una sfida che è possibile affrontare bene e vincere.
Se ne ritrova l’eco anche in un breve film, che ha vinto un concorso lanciato da Assolombarda e Fondazione Pubblicità Progresso tra giovani cineasti delle scuole milanesi, per uno spot sulla meccatronica: nel filmato vincitore, si parte dal disegno d’una bambina regalato al padre operaio e si finisce con una giovane ingegnere che sfiora affettuosamente il braccio d’un anziano tecnico che, accanto ai pannelli di controllo della macchina digitale, ha appeso, appunto, quel disegno. Cambia, la fabbrica. Restano centrali, le persone. Si aprono nuovi spazi, per i giovani. Un buon sapore di memoria e futuro.